Corriere della Sera, 22 ottobre 2019
Siamo di fronte a una nuova estinzione?
«Ti auguro di vivere in tempi interessanti», recita una antica maledizione cinese. Chissà come avrebbe ghignato il saggio autore di questo detto a guardarsi intorno in questo periodo. Non solo infatti viviamo «in tempi interessanti», ma li rendiamo ancora più interessanti col nostro ostinato tentativo di fingere che tutto vada bene.
Secondo un recente rapporto delle Nazioni Unite, il tasso di estinzione delle specie sta accelerando, ma non si tratta della perdita di qualche specie come panda o tigri: l’attuale tasso di estinzione è migliaia di volte superiore a quello che dovrebbe essere naturalmente. Circa un milione di piante e animali sono a rischio, di cui molti saranno estinti entro poche decadi, un fenomeno senza precedenti nella storia umana. Tra le piante più a rischio ci sono le conifere e le famiglie che includono le magnolie e le cycas; tra gli animali gli anfibi, i coralli, gli squali e i pesci di acqua dolce. Nessuno è al sicuro da questa ecatombe: solo tra i vertebrati abbiamo perso 680 specie in 4 secoli, tra cui 80 mammiferi.
Certamente a noi homo sapiens cittadini e tecnologici questi numeri possono significare poco, ma riflettono problemi ben più grandi su cui vale la pena riflettere. Così come il grande numero di nodi in una rete neurale, biologica o cibernetica che sia, porta a un grado maggiore di complessità e quindi di efficienza – non a caso ci vantiamo del nostro grande cervello —, così un maggior numero di nodi in una rete ecologica porta a ecosistemi più complessi e più stabili. Riprendendo il parallelo col cervello, tutte queste estinzioni che causano un impoverimento della «rete» ecologica hanno lo stesso risultato di chi abusa di alcol, e stiamo arrivando, senza accorgercene, alla demenza (e al collasso) degli ecosistemi.
Non ci sono dubbi che queste estinzioni siano legate all’azione dell’uomo. Tra le cause principali, secondo il rapporto delle Nazioni Unite, ci sono le alterazioni degli ecosistemi come la deforestazione o lo sfruttamento turistico delle coste; lo sfruttamento diretto degli organismi, per esempio per la caccia o la pesca eccessiva; i cambiamenti climatici, che causano la desertificazione e l’innalzamento del livello del mare; l’inquinamento dell’aria, del suolo e delle acque; infine le specie alloctone invasive, come i gamberi della Louisiana nei nostri fiumi. A vederla così, Greta Thunberg è un’ottimista a preoccuparsi solo del clima.
Siamo già oltre il punto di non ritorno? È difficile dirlo, dalla nostra posizione prospettica, poiché non sappiamo quale sia la resilienza della biosfera a questi massicci cambiamenti.
Molti scienziati tuttavia sono concordi che non è ancora troppo tardi per fare la differenza, ma solo se cominciamo ad agire adesso, a ogni livello e su tutto il pianeta. I fiumi di plastica nel sud dell’Asia ci dovrebbero preoccupare tanto quanto la Xylella a casa nostra o gli incendi in Siberia, perché tutta la rete è correlata: un ictus nel lobo temporale causa grandi difficoltà a tutto l’organismo, non solo localmente.
Se non dovessimo farcela, tuttavia, non disperiamo: il pianeta andrà tranquillamente avanti senza di noi e senza qualche milione di forme di vita. È già avvenuto almeno altre cinque volte nella storia degli ultimi 500 milioni di anni, e nella peggiore, quella tra Permiano e Triassico, si è perso ben il 60% di tutte le forme di vita conosciute.
Si aprono grandi opportunità di speciazione per chi rimarrà dopo di noi, dispiace solo non poterci essere a vedere che succederà.