il Fatto Quotidiano, 21 ottobre 2019
La difficile vita da doppiatori
“La più grande soddisfazione per noi è quando ci dicono: non ti avevo riconosciuto”, assicura Manuel Meli. “Più scompaio e meglio è”, sorride Massimo Lodolo. Forse credete di non conoscerli, eppure li avete sentiti parlare, ridere, amare. Li avete lasciati entrare nelle vostre case. Perché Manuel e Massimo sono doppiatori, quegli attori senza volto che si esprimono con l’elemento meno fisico e più inafferrabile del nostro corpo: la voce.
Manuel ha 24 anni ed è uno dei nomi emergenti; ha lavorato in Aladin e Il Trono di Spade. Massimo, oltre ad aver recitato come attore con Mauro Bolognini e Gabriele Lavia, sta dietro i microfoni da 37 anni. Sua è la voce in alcuni film di Kevin Costner, poi tra gli altri di Andy Garcia, John Turturro e Daniel Day Lewis. Eppure guai a cercare somiglianze tra questo signore con i capelli bianchi, scompigliati, e il sigaro tra le dita e i divi di Hollywood. Guai a chiedergli di fare la voce di Costner, perché ti fulmina con lo sguardo.
Oggi tutti vogliono comparire e invece loro cercano di restare nascosti. Voci nell’ombra, appunto, come si chiama il Festival internazionale del doppiaggio (direttore artistico in passato era il critico Claudio G. Fava) che si è svolto nei giorni scorsi. Decine di doppiatori sono arrivati a Genova e Savona. Ascoltandoli si scopriva un lavoro che ci ha dato tanto anche se fa di tutto per nascondersi; venivano fuori i timori per una professione che sta cambiando rapidamente. Il rischio, in tanti ripetevano questa espressione, è ‘la catena di montaggio’: “Una volta si faceva un episodio a turno (l’unità di lavoro settimanale, ndr), oggi siamo arrivati a due o tre”, racconta Federica Bensi, doppiatrice e cantante, perché la voce è la sua vita. È l’alluvione delle serie tv straniere, decine e decine di episodi. E bisogna fare presto: “Una volta potevi provare, oggi invece arrivi davanti al microfono senza aver letto il copione. Senza sapere nulla del personaggio, del suo carattere. Sai a malapena com’è fatto fisicamente. In un giorno ti tocca interpretare persone diverse, cambi stanza e devi cambiare voce”.
L’essenziale è la trama. Il doppiatore rischia di finire proprio nel buio; si perdono la precisione della traduzione, la finezza dell’interpretazione. Il rischio è anche quello della giungla, perché esiste un contratto nazionale. Sono previsti turni e retribuzioni, ma c’è la tentazione delle scorciatoie: ridurre tempi e costi. Mettere una voce, purché sia, intanto sono le immagini che contano e alla peggio si mettono i sottotitoli. Resta sempre meno per il doppiaggio e l’arte sorella: l’adattamento. Essere fedeli alla sceneggiatura, ma trovare parole che si muovano al ritmo delle labbra. “Bisogna rispettare il ritmo del personaggio, le pause. E poi prendete una parola come ‘home’, mica puoi tradurla semplicemente con ‘casa’. Al massimo ‘casa mia’, sennò la bocca si muove a un ritmo diverso”, così l’adattatrice Enrica Fieno rivela i suoi segreti. Ogni lingua richiede trucchi diversi. La più difficile? Lo spagnolo, forse. Così come certi attori, vedi Tim Roth con quel recitare giullaresco, fanno impazzire. Servono preparazione, talento. Tempo. Il doppiaggio rischia di essere liquidato, magari con la scusa che ormai si parla inglese. Anzi, è accusato di essere un simbolo del provincialismo nostrano che non conosce le lingue: “È falso che gli italiani non abbiano imparato l’inglese perché vedevano film tradotti. Anzi, se tanti spettatori, anche gente comune, hanno visto film impegnativi come quelli di Stanley Kubrick è stato grazie al doppiaggio che glieli ha resi accessibili”, è convinta Stefania Patruno che a Savona è stata premiata per aver interpretato Maria Callas in un radiodramma. Opera da far tremare i polsi, anzi, le corde vocali: dare la voce alla Divina. Imparare l’inglese, ma difendere l’italiano, la battaglia passa anche dal doppiaggio: “Perché la lingua è la nostra identità, non c’entra niente con nazionalismi e sovranismi”. E mentre ascolti Stefania istintivamente cerchi qualche somiglianza tra questa donna alta, distinta nei tratti come nelle vocali, e la cantante lirica più famosa della storia. Ma stai sbagliando. Dietro il microfono il doppiatore davvero si spoglia del corpo, diventa solo voce.
Ma in una manciata di anni è cambiato tutto. Certo, la tecnologia aiuta a risparmiare tempo: sbagli una scena e riprovi. Tagli. E via. “Ma una volta le scene si recitavano insieme”, Lodolo mette l’accento su questa parola, recitare, “mentre oggi il doppiatore è solo davanti alla colonna del microfono”. Provate a immaginare. Sparatorie, scene di guerra, soprattutto d’amore, recitate chiusi in una stanza da soli: “È richiesta una capacità di immedesimazione centuplicata. E ci vuole una mimesi anche fisica. Dovreste vederci mentre davanti al leggio ci sbracciamo, ci agitiamo, baciamo l’aria”.
Ma come si sceglie la voce giusta? “Per prima cosa – rivela Meli – cerco di capire il carattere del personaggio; se è timido scelgo un tono più flebile, se è cattivo più graffiante. Però è importante anche adattarla all’aspetto fisico, ai tratti del viso”. Vengono in mente le parole dello scrittore Paolo Giordano: “Nel buio le voci hanno più carattere”. Davvero a volte il doppiatore è meglio dell’attore. Un esempio? “Tom Cruise ha una voce terribile”, dicono i doppiatori, “E Gassman all’inizio aveva una voce quasi da eunuco. Quella che l’ha reso famoso se l’è creata lui con studio e sforzi enormi”.
Manuel è il compagno di Federica. Così come Lodolo è partner anche nella vita di Benedetta Degli Innocenti (che doppia Lady Gaga ed è stata anche lei premiata a Savona): “Mi sono innamorata prima della sua voce”, confida lei. Quella vibrazione del respiro e delle corde vocali che, come dicevano i greci, fa incontrare l’anima e il corpo.