il Fatto Quotidiano, 21 ottobre 2019
Il grande regalo dell’acqua in bottiglia
Ben 437,5 miliardi di litri, quasi mezzo chilometro cubo. È il volume dell’acqua in bottiglia consumata l’anno scorso nel mondo: suppergiù il lago Trasimeno. Dieci undicesimi sono stati bevuti in casa e pagati 152 miliardi di euro, il resto al bar o al ristorante al prezzo di 88 miliardi: il fatturato globale del settore ha raggiunto i 240 miliardi. Dal 2010 le vendite di acqua in bottiglia nel mondo sono aumentate di due terzi, i consumi per ogni abitante del pianeta (compresi quelli che muoiono di sete) sono cresciuti della metà, con una spesa procapite di 33 euro l’anno, mentre i ricavi per le aziende imbottigliatrici sono più che raddoppiati: nel 2023 dovrebbero superare i 330 miliardi di euro per 500 miliardi di litri. Un enorme business che sfrutta i timori, spesso ingiustificati, sull’acqua di rubinetto e arricchisce solo gli imbottigliatori: per l’uso delle sorgenti le imprese pagano cifre irrisorie rispetto ai fatturati realizzati.
Il primo mercato per consumi complessivi nel 2017 era la Cina, seguita da Usa e Messico, con l’Italia nona dietro alla Germania e prima della Francia. Ma se si guarda ai consumi procapite, nello stesso anno l’Italia era terza dietro il Messico e la Thailandia, davanti a Usa Germania e Francia. Secondo Mineracqua, la federazione nazionale delle imprese del settore che fa parte di Confindustria, l’anno scorso in Italia il mercato è rimasto stabile, con una produzione di 14,8 miliardi di litri, in calo dello 0,7% dai 14,9 miliardi del 2017. Le esportazioni nette sono ammontate a un miliardo e mezzo di litri per 510 milioni di euro. Ogni italiano ha consumato 221 litri l’anno e l’80% ne ha bevuto almeno mezzo litro al giorno. I consumi nazionali dal 2012 al 2017 sono cresciuti del 48% in valore e del 26% in volume sino a 11,2 miliardi di litri.
Nella Penisola sono attive 126 società di imbottigliamento che producono circa 250 marchi, dando lavoro a oltre 40mila addetti tra diretti e indiretti. Ai primi otto gruppi fa capo il 75% del mercato nazionale. Il leader è Sanpellegrino, controllata dal gigante svizzero Nestlé come anche i marchi Panna, Recoaro e Levissima, seguita da San Benedetto (di proprietà della famiglia Zoppas, come pure i marchi Guizza, Nepi, Cutolo). Ci sono poi Fonti di Vinadio (marchio Sant’Anna della famiglia Bertone), Gruppo Acque Minerali d’Italia (famiglia Pessina, 26 fonti tra le quali i marchi Norda, SanGemini, Gaudianello), Lete (famiglia Arnone), Ferrarelle (famiglia Pontecorvo, altri marchi Natìa, Santagata, Boario, Fonte Essenziale, Vitasnella), Cogedi (marchi Uliveto e Rocchetta) e Spumador (dell’olandese Refresco, marchi Valverde, S. Antonio, San Carlo, Mood). Seguono i gruppi Montecristo (famiglie Biella e Colombo, marchi San Bernardo, Ilaria e Posina), Coca-Cola (Fonti del Vulture), Siami (famiglia Notari, marchi Misia, Rugiada, Contessa, Viva e Celeste) e Pontevecchio (famiglia Damilano, marchio Valmora). Sanpellegrino Nestlé nel 2018 ha fatturato 928 milioni, in crescita del 4% sul 2017, per il 56,9% grazie all’export (+8%) specie negli Usa (+12%). Fonti di Vinadio ha fatturato 280 milioni, quasi 60 milioni in più del 2017.
Da anni Legambiente parla di “privatizzazione delle sorgenti in Italia”. Non a caso: secondo l’ultima edizione del Rapporto del ministero dell’Economia sulle concessioni delle acque minerali, aggiornato a dicembre 2018 sulla base dei dati 2016, le concessioni di imbottigliamento “complessivamente dichiarate” per lo sfruttamento delle fonti hanno portato alle regioni ricavi per “oltre 19 milioni di euro, con un incremento rispetto al 2015 di 979mila euro, pari al 5%”. E le concessioni hanno spesso durate lunghissime (anche 30 anni) e vengono assegnate senza gara. Un affarone: solo per i privati però. Ma Ettore Fortuna, vicepresidente di Mineracqua, ha dichiarato al Sole 24 Ore che il rapporto del governo è “sbagliatissimo”: “Lo studio dice che il settore fattura 2,7 miliardi e paga 18,4 milioni per le concessioni, un rapporto di 191 a uno. Ma nei 2,7 miliardi di cifra d’affari sono compresi mercati diversissimi, come le bibite (come la Coca Cola in Basilicata, con affidamento perpetuo). Il ministero avrebbe dovuto rapportare il costo della concessione con la redditività che non arriva al 2%, non con il fatturato lordo”. Se le Regioni imponessero oneri più elevati, per Fortuna “l’aumento andrebbe diritto sul prezzo finale, facendo rincarare l’acqua minerale a valori troppo elevati. Oggi in Italia il prezzo medio dell’acqua minerale è di 22 centesimi al litro, il più basso a livello comunitario. Di fronte a canoni tra 1 e 3 euro a metro cubo di acqua imbottigliata che si pagano in media in Italia, in Francia si pagano 58 centesimi, in Germania fra 31 e 40 centesimi, in Spagna addirittura gli oneri di concessione sono pari a zero”, ha spiegato il dirigente di Mineracqua.
Se davvero la redditività del business dell’acqua in bottiglia in Italia “non arriva al 2%”, come ha detto al giornale degli industriali il dirigente di Confindustria, alcune dinamiche del settore sono allora inspiegabili. La prima: il costante interesse dei grandi gruppi internazionali per acquisire quote di mercato. Solo per restare in Italia, il mese scorso CocaCola ha acquistato per 88 milioni le acque e le bibite Lurisia: nel 2017 queste avevano visto l’ingresso tra i proprietari della famiglia Boroli, attraverso il fondo Idea Capital di De Agostini, che aveva acquistato quote dagli azionisti storici, ovvero Eataly di Oscar Farinetti e la famiglia Invernizzi. Ancora: a giugno il fondo globale di private equity “The Riverside Company” ha comprato La Galvanina, società della famiglia Mini che produce acque minerali di fascia premium e bevande analcoliche biologiche, per una cifra ignota. La seconda: se la redditività è così bassa, perché le società del settore investono cifre faraoniche in comunicazione, pubblicità, sponsorizzazioni, con l’uso di testimonial notissimi? Tra l’altro alcuni spot sono stati sanzionati perché ingannevoli: il caso più eclatante è quello di Uliveto, censurata più volte dalle autorità perché definita “acqua della salute”.
Se le cose stessero come le racconta Mineracqua, non si spiegherebbe poi un ultimo fatto: il divario tra concessioni pagate per l’uso delle sorgenti e ricavi ottenuti è una costante a livello globale. Nestlé, leader mondiale del settore alimentare, ha iniziato a imbottigliare acqua in Svizzera nel 1843 e oggi è il maggior produttore globale, con ricavi 2016 per 7,7 miliardi di dollari, seguita da Coca-Cola, Danone e PepsiCo. Nestlé Waters, la sua controllata di Parigi, nel mondo possiede un centinaio di impianti in 34 Paesi e quasi 50 marchi tra cui Perrier e San Pellegrino. Già nel 1994 l’allora amministratore delegato di Nestlé, Helmut Maucher, dichiarava al New York Times: “Le sorgenti sono come il petrolio. Puoi sempre costruire una fabbrica di cioccolato ma le sorgenti o le hai o non le hai”. Una inchiesta di Bloomberg del settembre 2017 ha rivelato che dal solo impianto di imbottigliamento di acque minerali della Mecosta County, nel Michigan, Nestlé nel 2016 aveva realizzato un fatturato di 343 milioni di dollari pagando un canone complessivo di 200 (duecento) dollari. A San Bernardino, in California, per anni Nestlé ha pagato al Servizio forestale degli Stati Uniti la tariffa annuale di 524 dollari per estrarre circa 113,6 milioni di litri, anche durante le siccità. Negli Usa, dove le norme sull’acqua variano da Stato a Stato e da contea a contea, secondo Bloomberg “Nestlé tende ad aprire i suoi impianti in aree con legislazioni sull’acqua deboli oppure fa lobbismo per indebolire le leggi esistenti”.
Lo schema si ripete identico anche in Asia. Il 10 ottobre la Corte Suprema del Pakistan ha discusso l’introduzione di nuovi canoni pubblici di estrazione per le società di imbottigliamento, visto che nel Paese lo stress idrico si fa sempre più acuto anche per la crescita demografica e i furti d’acqua della “mafia blu” che guadagna un miliardo e mezzo di dollari l’anno. Il business dell’imbottigliamento in Pakistan è dominato da tre multinazionali, Nestlé Pakistan (con la maggior quota di mercato del 36,3%), Pepsi Co. e Coca Cola Beverages Pakistan. Secondo i magistrati di Islamabad, però, Nestlé Pakistan non ha praticamente versato nulla all’erario per i 4,43 miliardi di litri captati tra il 2013 e il 2017: allo Stato del Sindh che ospita Karachi, città con oltre 24 milioni di abitanti che resta spesso a corto di acqua potabile nonostante sia attraversata dal fiume Indo, la controllata locale del gigante svizzero avrebbe pagato mezza rupia pakistana (0,28 centesimi di euro) ogni 4mila 550 litri di acqua estratta.