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 2019  ottobre 21 Lunedì calendario

Italia nella top ten dei fabbricanti di armi

Il riarmo globale è in piena corsa, con ritmi quali non se ne vedevano dalla fine della Guerra Fredda, e il commercio mondiale di armi lo segue a ruota. Lo conferma non solo la cronaca, con l’escalation turca contro i Curdi in Siria, ma anche i dati del Sipri, l’Istituto internazionale di ricerche sulla pace di Stoccolma che monitora il “mercato della difesa”. Anche l’Italia si è ritagliata la sua fetta di questo settore attraverso la diplomazia commerciale. Ma gli esperti temono soprattutto la diffusione delle armi robot, i cui prototipi stanno già iniziando a comparire e vengono testati su alcuni teatri di guerra, come quello siriano.
Secondo il Sipri, nel 2018 la spesa militare mondiale è stata di 1.822 miliardi di euro, pari al 2,1% del prodotto interno lordo globale o a 215 euro per ogni essere umano. Il valore è cresciuto del 2,6% sul 2017 e del 5,4% sul 2009. L’onere militare – le spese militari di ciascun Paese in percentuale del suo Pil – è però calato tra il 2017 e il 2018 in ogni area mondiale tranne che in Europa, dove gli accordi internazionali hanno spinto alcuni Stati membri della Nato ad aumentare gli investimenti militari per raggiungere entro il 2024 un onere militare pari al 2% dei rispettivi Pil.
Nel 2018 i cinque maggiori Paesi per spesa militare sono stati Usa, Cina, Arabia Saudita, India e Francia, che insieme hanno rappresentato il 60% della spesa mondiale. L’anno scorso, per la prima volta dal 2012, gli Stati Uniti hanno aumentato il budget del Pentagono portandolo a 584 miliardi di euro, il 36% dell’intero stanziamento militare mondiale e 2,6 volte la spesa del secondo Paese in classifica, la Cina. Pechino ha investito in armi 225 miliardi di euro, con un aumento del 5% sul 2017 e del 83% sul 2009. Ma “la spesa militare cinese è pressoché stabilmente legata alla crescita economica del Paese, che nel 2018 ha registrato il livello più basso degli ultimi 28 anni”, rileva Sipri, dunque “per i prossimi anni ci si può attendere una crescita più lenta della spesa militare” della Repubblica Popolare. Il primato mondiale dell’onere militare nel 2018 l’ha vinto l’Arabia Saudita, che ha speso in armi l’8,8% del Pil con 61 miliardi di euro, nonostante un calo del 6,5% su base annua. L’India (60 miliardi) e la Francia (57,4 miliardi) sono stati il quarto e il quinto maggior investitore in armi. Con 55,3 miliardi di euro, le spese militari di Mosca nel 2018 sono invece calate del 22% rispetto al picco fatto registrare nel 2016, il record dopo la fine della Guerra Fredda: per la prima volta dal 2006, così, la Russia è uscita dalla “top five” globale delle spese militari. In termini relativi, invece, i tre principali aumenti di spesa militare tra il 2017 e il 2018 sono stati fatti registrare da Burkina Faso (+52%), Giamaica (+40%) e Armenia (+33%), mentre le tre principali diminuzioni sono state registrate in Sud Sudan (-50%), Sudan (-49%) e Benin (-28%).
A far segnare il nuovo record mondiale è stato invece il volume mondiale del commercio di armi, che è cresciuto del 7,8% tra i quinquenni 2009-2013 e 2014 -2018 toccando il livello più alto dalla fine della Guerra Fredda e ha proseguito il trend in costante crescita dai primi anni 2000. Sipri stima che i traffici globali di armi siano stati pari ad almeno 95 miliardi di dollari. I cinque maggiori Paesi esportatori, nel quinquennio 2014-18, sono stati gli Usa (con il 34% dell’export mondiale), seguiti da Russia (22%), Francia (6,7%), Germania (5,8%) e Cina (5,7%): insieme hanno realizzato il 75% dell’export globale. L’Italia si è piazzata al nono posto con il 2,5% delle esportazioni globali per 5,2 miliardi di euro, mentre la produzione ha avuto un valore pari all’1% del Pil nazionale.
Nel 2018 il Medio Oriente è stato il principale mercato mondiale degli armamenti, con il 35% dell’import globale e un aumento dell’87% tra i quinquenni 2009-13 e il 2014-18, mentre i flussi di armi verso tutte le altre aree mondiali sono calati: del 36% quello verso le Americhe, del 13% in Europa, del 6,7% in Asia e Oceania e del 6,5% in Africa. I cinque maggiori importatori di armi sono stati Arabia Saudita, India, Egitto, Australia e Algeria con il 35% dell’import globale.
Quanto ai top player del mercato mondiale, la classifica stilata da Sipri delle prime 100 società produttrici di armi e servizi militari al mondo (che non comprende quelle cinesi, i cui dati non vengono resi noti) per il 2017, l’ultimo anno per il quale i dati sono disponibili, ha visto un aumento del fatturato globale del 2,5% rispetto al 2016 a 358,2 miliardi di euro. Nell’elenco gli Stati Uniti la fanno da padrone, con cinque società nella “top ten” e i tre gradini del podio con la prima (Lockheed Martin), seconda (Boeing) e terza (Raytheon). Delle altre cinque aziende tra le prime dieci, una è inglese (Bae Systems), una francese (Thales), un altro è un consorzio europeo (Airbus). Al nono posto c’è l’italiana Leonardo (ex Finmeccanica), che nonostante l’aumento del fatturato ha perso una posizione rispetto al 2016, e la decima è russa (Almaz-Antey). L’unica altra azienda italiana tra le 100 multinazionali degli armamenti è Fincantieri, che nel 2017 è scesa dalla 55esima alla 58esima posizione.
Intanto, nonostante la legge 185 del 1990 che proibisce di esportare armi a Paesi in guerra o che violano i diritti umani, l’Italia continua a riarmare Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti coinvolti nella guerra in Yemen costata la vita a decine di migliaia di civili, o a far produrre armi su licenza in Turchia, come gli elicotteri T129 di Leonardo per 3 miliardi di euro, o a venderle, come gli aerei ATR 72-600 in versione da trasporto o antisommergibile piazzati da Leonardo alla Marina turca. Sempre in Turchia è presente dal 2000 Beretta che vi produce armi da fuoco leggere tramite la controllata Stoeger Silah Sanayi (ex Vursan) vendendole anche al ministero della Difesa di Ankara. Alcune proposte di legge per stringere le maglie di questi commerci e far rispettare l’articolo 11 della Costituzione (“L’Italia ripudia la guerra”) giacciono da mesi in Parlamento. Da qualche parte infatti devono pur arrivare le armi per i 55 conflitti in corso nel mondo, tutti in Africa e in Asia tranne quelli in Ucraina e Colombia: da inizio anno solo in Afghanistan, Siria e Yemen si sono già contate oltre 80.200 vittime, in grandissima parte civili.