La Stampa, 21 ottobre 2019
Sul Meridiano dedicato a Fruttero & Lucentini
Erano interessatissimi sia a libri che classificavano di «genere A» sia a quelli di «genere B»; lo stesso valeva per film, teatro, arte. E come scrive Domenico Scarpa nella prefazione al Meridiano dedicato a Fruttero & Lucentini (Opere di bottega, in due grossi tomi, esce domani per Mondadori, pp. 3168, € 140) lo facevano «di prima intenzione, senza snobismi da bastiancontrari», semmai in polemica perenne, come scrissero nella prefazione a un’antologia di storie di guerra americane, con i «recensori ad alto livello, che classificano "film B" tutti quelli dove i cannoni sparano davvero».
Mai in sintonia con le correnti dominanti, F&L hanno saputo parlare, diremmo senza connivenze, con ironia, eleganza e dedizione – ai lettori. Che ora hanno a disposizione nel Meridiano non solo l’intera opera – a eccezione della «trilogia del cretino», pubblicata qualche tempo fa da Mondadori negli «Oscar classici» - ma anche un centinaio di pagine di inediti, tra lettere, appunti, insomma il laboratorio, dagli archivi di famiglia (conservati a Castiglione della Pescaia e a Torino).
Ci sono anche le opere scritte e firmate singolarmente, ma al centro di tutto è il quasi miracoloso risultato della scrittura a due, che caratterizza i grandi romanzi dalla Donna della domenica a A che punto è la notte, da Il palio delle contrade morte a Enigma in luogo di mare, a L’amante senza fissa dimora, libri straordinari e perfetti. Coprono un arco di tempo dal ’72, quando uscì il primo, al 2002 quando Lucentini scelse di morire (Fruttero ci ha lasciati nel 2012): trent’anni di «ditta», mille volte spiegata, mille volte elusa, sempre misteriosa, anche se la loro storia comincia ben prima. L’incontro decisivo fu nel ’53 a Parigi, quando, dopo qualche anno di bohème intellettuale in giro per l’Europa, divennero amici e inseparabili.
Fruttero, che già lavorava per l’Einaudi, convinse Lucentini a trasferirsi a Torino, e l’editore ad assumerli entrambi. Svolgevano i loro compiti di redattori (pare mal pagati), traducevano Borges e Beckett, scoprivano la fantascienza. Ma nonostante i rapporti che allora si cementarono con Calvino e Citati, lo Struzzo non faceva per loro, era troppo ideologico, forse un po’ supponente. Così nel ’61 prima uno poi l’altro si trasferirono alla Mondadori, per dirigere «Urania», la prima collana tutta di fantascienza. E già allora sapevano benissimo quel che facevano.
Dagli archivi di Fruttero è emerso un documento per molti aspetti straordinario al proposito: la minuta di una lettera spedita nel ’61 all’allora direttore Vittorio Sereni, in cui annunciavano il programma di lavoro, ma anche qualcosa di più importante, una posizione sulla letteratura che ricorderà quella più celebre ma successiva di Harold Bloom, scomparso nei giorni scorsi, contro la «scuola del risentimento», i «gender studies», l’ideologizzazione trionfante nelle università e non solo. In quella lettera c’erano già i presupposti da cui sarebbe scaturita La donna del domenica: dove si noterà che l’indimenticabile americanista Bonetto è proprio l’alfiere di quelle acritiche infatuazioni «post-coloniali» destinate a irritare non poco lo studioso americano. Il romanzo ebbe un enorme successo. Natalia Ginzburg ne capì subito la «allegria così viva e così misteriosa». La maggioranza dei critici, sul momento, non riuscì a raccapezzarsi. Con grande divertimento degli autori.