Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2019  ottobre 21 Lunedì calendario

Il rischio default del Vaticano

E se l’inferno fosse il crac? La crisi finanziaria del Vaticano, crescendo e allargandosi a tutte le strutture della Santa Sede, è arrivata ad evocare il fantasma finale, quello del sacro default. Ne parlano ufficialmente, nei loro documenti riservati, i responsabili della task force che papa Francesco ha messo in campo per tentare una riforma radicale del sistema finanziario che sostiene la Chiesa, davanti all’allarme per i conti fuori controllo. Il crac è diventato un incubo concreto nei sacri palazzi, perché i numeri parlano chiaro: e senza i mezzi per sostenere l’opera di evangelizzazione e per soccorrere i poveri, il Verbo risuonerebbe nudo nel mondo, pagando il prezzo degli scandali e della resistenza che la macchina curiale continua ad opporre alla trasparenza predicata da Papa Bergoglio.
La radiografia segreta di questa crisi verticale è ora in un libro di Gianluigi Nuzzi ( Giudizio Universale , Chiarelettere), che continua la sua indagine sui misteri del Vaticano, sulla base di documenti riservati che da soli testimoniano la guerra di potere in corso oltretevere, documentata già nei quattro volumi precedenti. Nel 2016 Via Crucis di Nuzzi, insieme con Avarizia di Emiliano Fittipaldi finirono sotto processo davanti al Tribunale della Santa Sede, con l’accusa di essere il frutto di un’«associazione criminale » per la rivelazione di notizie legate a «interessi fondamentali » dello Stato pontificio. Due libri processati davanti alla croce, negli anni Duemila, prima del proscioglimento.
Ora Fittipaldi ha appena pubblicato sull’ Espresso un dossier sui gravi indizi di «peculato, truffa, abuso d’ufficio, riciclaggio» documentati dai pm del Papa a carico di ecclesiastici e laici; mentre Nuzzi racconta — con tremila carte riservate e inedite — come il Vaticano sia passo dopo passo arrivato sull’orlo del precipizio finanziario. L’ultimo atto è a fine maggio, quest’anno, quando Francesco riceve i dati di bilancio dell’Apsa, la banca centrale del Vaticano e scopre che «per la prima volta nella storia» l’esercizio 2018 è in rosso. La dinamica è impietosa: risultato operativo meno 27 per cento, risultato finanziario meno 67, risultato di gestione meno 56 per cento. Le cause? Una gestione clientelare e senza regole, che copre abusi, privilegi, contabilità fantasma, illeciti e un continuo, testardo sabotaggio dell’azione del Papa per cambiare radicalmente le cose.
Quando il 15 maggio 2018 si riunisce nella sala Bologna il Consiglio per l’Economia che il Papa ha creato per affrontare l’emergenza finanziaria, sul tavolo è pronto per i 17 membri un dossier drammatico: crollo delle entrate, crescita incontrollata dei costi per il personale, svalorizzazione degli asset, buchi pericolosi nel fondo pensioni e nell’assistenza sanitaria. A verbale: il Consiglio per l’Economia decide di informare il Santo Padre perché «il deficit che affligge la Santa Sede ha raggiunto livelli preoccupanti, a rischio di condurre al default». La parola è pronunciata, come una santa bestemmia.
A luglio il Consiglio denuncia che «mancano le informazioni fondamentali per determinare in modo esatto e corretto il deficit». La struttura vaticana resiste. Anzi, il cardinal Vallini, fedelissimo dell’ex segretario di Stato Bertone, alza il velo sui fondi «che il Santo Padre ha diritto a utilizzare a propria assoluta discrezione». La Curia si oppone all’operazione-trasparenza usando come scudo la provvista riservata del pontefice, che nessuno conosceva.
La partita, come è chiaro, si gioca sul sigillo papale del segreto sulle stanze più riservate del palazzo apostolico. Quei fondi infatti sono gestiti dall’ufficio amministrativo della Segreteria di Stato, una sorta di "terza banca", come viene chiamato in Vaticano. Il meccanismo di approvvigionamento del conto segreto di questo "ufficio" viene descritto nel libro da monsignor Francesco Salerno, che ha servito 5 Papi (anche come segretario della Prefettura degli affari economici), e che prima di morire ha parlato con Nuzzi: «I cardinali Nicora e Ruini avevano studiato il sistema perfetto. Per norma tutti i vescovi devono dare un contributo alla gestione finanziaria centrale della Chiesa. Il sistema prevedeva che dall’importo versato da ogni vescovo delle 226 diocesi italiane venisse trattenuta una percentuale. La provvista veniva passata alla Santa Sede utilizzando il nunzio apostolico, cioè il corridoio diplomatico». In più, secondo Salerno, «Jp Morgan riceveva soldi dalla segreteria di Stato e poi li portava fuori dai confini attraverso la sede di Milano».
Anche una parte dell’Obolo di San Pietro viaggiava oltrefrontiera, racconta Salerno. «Queste operazioni le gestivo io, so come funzionano. L’Obolo viene generalmente calcolato in dollari, la porzione europea in euro, che da Milano andavano in Germania». La crisi finanziaria vaticana fa sì che il 58 per cento dell’Obolo non finisca in opere di carità, ma serva a ripianare i buchi della Curia, mentre il 20 per cento viene tenuto fermo nei depositi, col risultato che su 10 euro raccolti nelle offerte solo 2 vanno ai bisognosi.
La platea teorica interessata all’Obolo è formata dal miliardo e 299 milioni di cattolici del mondo, distribuiti in 224 Paesi di cui solo la metà (147) fa donazioni. La contrazione è evidente, dopo la punta di 101 milioni del 2006: meno 21,7 nel 2007, meno 5 nel 2008, più 9 nel 2009, meno 17 nel 2010. Nel 2015 si scende a 70 milioni, 13 in meno dell’anno precedente. Al primo posto ci sono gli Usa, col 27 per cento, poi la Francia col 12, quindi l’Italia col 10, tutti in calo dal 5 al 21 per cento. I privati sono solo il terzo donatore, dopo le diocesi e le fondazioni. Gli scandali erodono la fiducia dei fedeli.
La doppia crisi, finanziaria e di fiducia, spinge Francesco a voltare pagina, combattendo l’inefficienza con la riforma, l’avidità con la condanna. Nel giugno 2018 denuncia «gli intrighi di palazzo, anche nelle curie ecclesiastiche», e domanda: «A che serve guadagnare il mondo intero se si è corrotti all’interno?». Ma quando si aprono i registri dell’Apsa, l’amministrazione del patrimonio della sede apostolica, emerge nel 2013 una contabilità parallela, coi conti segreti di 5 cardinali, Lajolo (2.832.510 euro in titoli, 211.724 liquidi), Cordes, Baum, Cacciavillan e Martinez Somalo. Il Papa ordina l’immediata chiusura dei depositi, manda gli ispettori a controllare il portafoglio Apsa di un miliardo e 716 milioni di euro, con 10 conti aperti allo Ior in valute diverse, euro (30 milioni più 14,3 in titoli), dollari, sterline, dollari canadesi, franchi svizzeri (36.000). L’ispezione di Moneyval riferisce al Papa di aver trovato una ragnatela di clienti composta da cardinali, nobili, principi e pensionati un po’ troppo facoltosi. Emergono tre fondi personali da 4 milioni (Riccardo Vaccari), 1.092.972 (Alessandro Marini), 395.900 (Enrico Capo). Poi altri fondi intestati a uomini di chiesa, "cardinale Agostino Casaroli", "Cardinale Antonetti"», "Cardinale Antonetti e sorella Giuseppina", "Madre Luigia Tincani", "Garnier Lestamy" e "Principe Rolando Brancaccio". Non è escluso, conclude l’ispezione, che siano nomi di copertura, per proteggere tesoretti di politici e imprenditori vicini ai sacri palazzi.
Francesco chiede di chiudere i depositi sospetti, i conti dei porporati. Ma gli ispettori lo informano che il doppiofondo vaticano è praticamente ineliminabile: «È presente un conto corrente in quattro valute diverse con intestazione "F.D.", per il quale non ci è stata fornita alcuna documentazione, in quanto coperto da segreto di Stato ». I controllori non riescono ad ottenere nessuna spiegazione anche per tre conti accesi alla Deutsche Bank Ag e per quello al Credit Suisse di Zurigo. Quando emerge una partita di lingotti d’oro di riserva per 34 milioni, si scopre che nessuno ha mai fatto il controllo per appurare che l’oro sia davvero oro, e per controllarne la purezza. Gli ispettori parlano di documenti distrutti, smarriti per negligenza, mettono per scritto che devono denunciare «la concreta possibilità di episodi di illecito e corruzione».
Quando analizzano il gigantesco patrimonio immobiliare della Santa Sede, mezzo milione di metri quadrati del valore di 2,7 miliardi, emerge un quadro sconfortante. Il "tesoro" è composto da case per il 41 per cento, uffici per il 26, negozi per l’8 per cento, con un totale di 4.421 asset, ma 800 proprietà sono sfitte, dei 3.200 beni in locazione il 15 per cento è a canone zero, metà ad affitto di favore. Il valore medio del canone è tra i 7,47 e gli 8,18 euro mensili per metro quadrato, con una riduzione rispetto al mercato che va dal 20 al 70 per cento. Nonostante questo, incredibilmente, le morosità arrivano a 2,7 milioni di euro.
Ecco perché le entrate crollano. E le spese crescono fortemente, nonostante Francesco fin dall’inizio del pontificato abbia chiesto vigilanza, misura, controllo. Dai 16,4 milioni del 2015 si è passati ai 22,7 l’anno dopo, ai 26,6 nel ’17, con una crescita del 62,19 per cento nel triennio, mentre le consulenze si sono gonfiate del 147 per cento, il costo del personale è aumentato del 15,56 e gli acquisti in 5 anni sono decollati, con un più 219 per cento. Così il budget 2019 mostra un aumento del deficit di 63,3 milioni, crescendo del 197,8 per cento.
Eppure anche in questa emergenza la Santa Sede riesce a predisporre finanziamenti riservati per sostenere la Chiesa clandestina in Cina, come faceva coi cattolici dell’Est ai tempi della guerra fredda. Propaganda Fide, la congregazione per l’evangelizzazione, tra i suoi 19 conti correnti allo Ior e i 21 portafogli titoli ha un "Fondo Cina" di 7 milioni e 120 mila dollari, più due depositi "cinesi" in sterline e in euro. Un quarto conto ("Propaganda Fide-Cina") registra un ammontare di 72 mila dollari. Gli ispettori, analizzando depositi e investimenti, rilevano che gli enti vaticani «non applicano alcun filtro nelle loro scelte, né di sostenibilità né di tipo etico». Per il denaro, dunque, vale tutto.
Finché un anno fa il revisore generale, figura di garanzia creata da Francesco, denuncia che non può compiere il suo lavoro come dovrebbe «per impedimenti all’autonomia e all’indipendenza» del suo ufficio. Cosa succede? La struttura curiale fa muro, non accetta i controlli, si rifiuta di collaborare, nonostante gli appelli del Papa. L’Apsa non ammetteverifiche da settembre 2016 fino a giugno ’17, 11 enti collaborano solo parzialmente, la segreteria di Stato resta fuori, il 47,6 per cento delle spese non è controllato con un full audit.
I veleni vaticani si intrecciano alla crisi finanziaria e la complicano. Il "Giudizio Universale" riapre il caso Viganò, col Prefetto per la Comunicazione costretto a dimettersi dopo l’accusa di aver censurato Ratzinger, inviando ai giornalisti la fotografia di una parte soltanto della lettera che il Papa emerito gli aveva mandato per commentare gli 11 volumetti teologici di Francesco: in particolare era stata omessa la critica (poi rivelata dal sito "Settimo cielo" di Sandro Magister) alla pubblicazione di Benedetto, perché dava spazio al professor Hunermann che «capeggiò iniziative antipapali ». Ora Nuzzi rivela uno scambio inedito di sms tra Viganò e monsignor Georg Gänswein, prefetto della casa pontificia, che segue il Papa emerito.
È il 16 marzo 2018, quattro giorni dopo la presentazione dell’opera teologica, quando monsignor Georg scrive: «Caro Dario hai fatto purtroppo un pasticcio molto grande. Mi dispiace. GG». Risposta di Viganò: «Ma come? Ho letto il pezzo su cui avevamo preso accordi agli esercizi. Questo dimostra anzi come questa gente non voglia bene a Benedetto e lo usino come bandiera. Mi dispiace che tu pensi così. Abbiamo fatto bene i passi insieme e condiviso cosa fare. Perché mi dici questo? Comunque ora sono verso aeroporto ma domani torno e se credi ci sentiamo. D». Ancora Gänswein: «Ne parleremo. La "manipolazione" della foto della lettera ha creato guai. Questo non abbiamo concordato. Buon viaggio, a domani. GG». In una nota riservata alla segreteria di Stato, prima delle dimissioni, Viganò ripete «per amore di verità» di aver letto la lettera di Benedetto «nella modalità concordata » con monsignor Georg: «È evidente che se sua eccellenza fosse intervenuto per spiegare che non era stata compiuta nessuna mistificazione avrebbe chiuso il caso».
C’è ancora il macigno dello Ior, la banca vaticana. Il 10 luglio 2013 Francesco riunisce il gruppo di lavoro e chiede di valutare se lo Ior «debba essere ridimensionato, riformato, riconfigurato e se è il caso di pensare a una struttura completamente nuova». Una lettera «su precise indicazioni del Santo Padre » chiede a 45 soggetti un rapporto sulle attività legate allo Ior, con particolare riguardo all’antiriciclaggio, garantendo il sigillo del segreto pontificio. Ma oltre il 20 per cento dei dirigenti non risponde nemmeno, mentre i conti precipitano: nel 2018 lo Ior ha dimezzato il suo sostegno alla Santa Sede (da 50 milioni a 27), l’Obolo è sceso da 55 a 51 milioni, il Governatorato deve triplicare i suoi contributi, passando dai 12,4 milioni del 2017 ai 30 del ‘18. Il baratro si avvicina.
Forse l’inferno è già comparso, prima del crac. Solitario, Francesco continua la sua denuncia. E dopo questo quadro, si capisce la sua indignazione: «Il nocciolo della corruzione è un’idolatria, è aver venduto l’anima al dio denaro. Un vescovo avido di guadagni disonesti è una calamità per la Chiesa. Perché il diavolo entra dalle tasche».