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 2019  ottobre 21 Lunedì calendario

Sul nuovo romanzo di Sandro Veronesi

Perdonate l’inizio un po’ melodrammatico (sto rivalutando il genere). Quando non sarò più su questa terra tra le tante cose che mi mancheranno (le canzoni di Paolo Conte e David Bowie, le partite dell’Inter e degli Azzurri di Mancini, gli articoli di Mario Sconcerti sulle suddette partite), ci sarà anche la trepida attesa di ogni nuovo romanzo di Sandro Veronesi (da me detto Alessandro Magno, così come Gianni Brera chiamava Rombo di Tuono Gigi Riva, il campione che massimamente rispettò). 
Mi mancherà per come scrive (il piacere del testo, diceva Roland Barthes). Mi mancherà per una questione di orientamento generazionale (anche se lui è più giovane di cinque anni e non manca mai di sottolinearmelo). Da ragazzo, quando andava per mare con il padre ingegnere e velista, Sandro era specializzato nel fare il punto nave guardando il cielo stellato come gli antichi marinai (ora ci pensano i computer). Anche nei romanzi Veronesi fa il punto nave, stabilisce dal 1988 (Per dove parte questo treno allegro, il suo esordio) il posto esatto della nostra generazione nel tempo.
Perciò domenica 28 luglio ultima scorsa, quando «la Lettura» ha pubblicato l’anteprima de Il colibrì, il nuovo Veronesi, l’ho divorata subito sotto l’ombrellone. La storia comincia una mattinata romana di metà ottobre 1999, quando il medico oculista Marco Carrera, eroe del libro (gli altri romanzi hanno protagonisti, quelli di Veronesi hanno eroi, soprattutto questo), sta visitando una paziente che soffre di blefarite ciliare. È un momento di ordinaria routine per il suo mestiere, ma non per la sua vita. Il dottor Carrera sta per ricevere una rivelazione sensazionale. Il latore del messaggio è lo psicoanalista (sguardo magnetico!) della moglie molto pop dell’oculista. La cosa che, precipitandosi nello studio e infrangendo ogni deontologia professionale, deve comunicare al collega è così sconvolgente che lo strizzacervelli la prende larga. Tanto che Carrera si spazientisce: «Perché non mi dice quello che deve dirmi senza tante storie? C’è un matrimonio di mezzo, cazzo, c’è una figlia!». Allora l’altro sgancia la bomba: «Mi dispiace dirglielo ma il suo matrimonio è finito da un pezzo, dottor Carrera. E di figli ce ne sarà un altro, tra poco, ma non sarà suo».
L’anteprima finiva così: «La membrana che separava il dottor Carrera dal più potente urto emotivo di una vita ricca di altri potenti urti emotivi è caduta. Preghiamo per lui, e per tutte le navi in mare». E ora? Avrei dovuto aspettare il 24 ottobre, data d’uscita prevista dalla casa editrice (La nave di Teseo) per sapere come andava a finire? Nemmeno per sogno. Alle 16.34 di domenica 28 luglio ho mandato un Whatsapp a Veronesi: «Non mi puoi lasciare così sulla porta con il dottor Carrera e la sua vita distrutta! Mi mandi il resto del romanzo?». Lui, 16.36: «Finisco di correggerlo e te lo mando».
Una settimana dopo, lunedì 5 agosto ore 10.32, Veronesi whatsappa: «Antonio, la Sgarbi e la Civiletti mi hanno vietato di trasmettere il file a chicchessia. Io però te lo manderei lo stesso. Basta che tu faccia finta di nulla e non ne parli con nessuno fino a quando questo embargo finisce».
(Spero che sia caduto in prescrizione quanto abbiamo fatto Veronesi e io questa estate aggirando l’embargo decretato dai maggiorenti della Nave di Teseo).
Io: «Non c’è problema, sono calabrese, l’omertà è la mia prima natura».
Lui (sfoderando una inaspettata dizione terronica): «Mi sciaccomando, cumpà. Quando torno a casa te lo mando».
Io: «Ok, sei nel buen retiro maremmano?».
Lui: «Sì, te a Tellaro?».
Io: «Uh uh e ho scoperto dopo anni il posto preciso dove venivi da bambino in gita nel bosco di Montemarcello. Il tuo posto delle fragole che una volta sei venuto a cercare senza trovarlo? La prossima volta che ci passo ti mando una foto».
Lui: «Magari!!».
Io: «Sarà fatto».
Lui: «Mandato».
Io: «Ok. Ora vediamo cosa succede al povero dottore».
Più tardi, 17.48, ancora io: «Non ti dico nulla, sono a pagina 70, ora devo uscire, ma se il romanzo continua così, una chicane dietro l’altra... Mamma mia!»
Per due giorni mi sono immerso dentro Il colibrì. Marco Carrera cresce come un ragazzo della borghesia fiorentina (piazza Savonarola). Il babbo, Probo (nomen omen moraviano), è un ingegnere. Una volta per la figlia Irene ha costruito una casa per le bambole ispirata alla celeberrima casa sulla cascata di Lloyd Wright. La mamma, Letizia, è una architetta snob (fanatica del design radicale anni Sessanta-Settanta) e tradisce serialmente il marito. Pensate che, appassionata fotografa, ha fatto nella vita migliaia di scatti (perlopiù ad architetti radicali), ma uno solo al marito, ritratto come angelo del fango durante l’alluvione: «Con gli stivaloni e la mantella, davanti alla Biblioteca Nazionale, sotto un lampione che gli rischiara il volto sorridente e la sigaretta tra le labbra». La foto non la vediamo, ma è come se l’avessimo vista mille volte e altrettante volte ci avesse fatto stringere il cuore (che è poi, detto tutto quello che c’è da dire, il mestiere dello scrittore: un fatto cardiaco, un generatore di intermittenze del cuore). Quella foto ha la forza, nell’economia del romanzo, della fatale e angelica immagine del miliziano colpito a morte di Robert Capa.
Marco ha un fratello, Giacomo. Sono (e saranno sempre) innamorati entrambi della stessa ragazza, Luisa, vicina di casa al mare a Bolgheri. Amore vieppiù complicato dal fatto che le famiglie sono nemiche come i Montecchi e i Capuleti. C’è poi la sorella Irene, che ascolta incessantemente, «in un micidiale loop», Gloomy Sunday, «la canzone ungherese dei suicidi, responsabile secondo la leggenda di decine di atti irreparabili, a Budapest, negli anni Trenta, a causa della sua irresistibile tristezza». Più che una canzone «un allarme che suona da giorni, ma nessuno lo sente». 
I Carrera rispettano appieno la prima e unica legge della narrativa: «Tutte le famiglie felici si assomigliano fra loro. Ogni famiglia infelice è infelice a suo modo». Sin da ragazzo, Marco dovrà affrontare, come Amleto, le percosse e le ingiurie di una sorte oltraggiosa: divorzi avvelenati, disastri aerei, morti in famiglia (ogni genere possibile di morte, compresa la più orribile, addirittura innominabile in molte lingue), e l’elenco che ho fatto delle sfighe è gravemente incompleto. Però, eroicamente, Marco non si arrenderà e combatterà affinché «le cose non vadano perdute nel tempo come lacrime nella pioggia», le parole dette dal replicante di Blade Runner nel monologo che è stato l’Essere-O-Non-Essere della mia generazione. Il dolore dei Carrera diventa il basalto sul quale fondare il mondo a venire: «I ricordi diventavano destino, il passato, futuro». Dalla pena nascerà l’uomo nuovo (che sarà femmina e si chiamerà Miraijin, una specie di Futura di Lucio Dalla).
Ogni romanzo di Veronesi parte da una immagine. Credo che l’immagine all’origine del Colibrì sia la scena madre, la scena del crimine, scritta proprio alla CSI, in cui i protagonisti sono sparsi e variamente occupati sulla costa del Tirreno centrale. Quella notte di tregenda Marco (all’epoca ventiduenne) e Luisa, i Giulietta e Romeo di Veronesi, sono, le labbra «gonfie di succhiotti», a Baratti. Letizia e Probo, inebriati di Grattamacco bianco, sono a San Vincenzo (e lei sentirà d’improvviso «una medicamentosa, sororale tenerezza» per il coniuge). Giacomo, «stramazzato sul divano sotto l’effetto di una potente combinazione di Rum e Nutella», è a Bolgheri. E Irene? Irene si trova sulla spiaggia, ai Mulinelli, dove l’acqua è più limacciosa e traditora. Preghiamo per lei, e per tutte le navi in mare.
Per scrivere un romanzo, mi ha detto una volta Veronesi, sono disposto ad andare all’inferno. Eccolo. Quella notte Marco risente «l’ululato dei lupi alla fine di quel brano straziante di Joni Mitchell che non piaceva a nessuno tranne che, proprio per questa ragione, e fin da subito (uscì alla fine degli anni Settanta, quando nel mondo erano tutti ragazzi), a lui». Molte pagine dopo Marco, ormai adulto, risente l’ululato ai tavoli dove gioca d’azzardo (sua passione fin da adolescente), nella bisca dell’infido rampollo aristocratico senese Dami Tamburini. Lì scommettono sotto nickname e in maschera, come in un racconto di Poe o in un film di Kubrick: Desperado, sostituto procuratore di Arezzo; Lady Oscar, «la moglie del console tedesco a Firenze, sensuale e pettoruta»; Rambo, «un simpatico ristoratore di San Casciano Val di Pesa con una voglia a forma di Africa sulla sella del collo»; The Machine, «un ex-ministro novantenne della prima repubblica». Tra quelle presenze, un po’ ridicole e un po’ demoniache, Marco sente «l’odore della rovina» da cui è sempre stato attratto: «C’erano la forfora sulle spalle, il sudore sulle fronti, le cravatte slacciate, la tosse psicogena, la scaramanzia forsennata e lo sguardo spiritato di chi sta per puntare più di quanto può permettersi di perdere».
Il colibrì è un romanzo grande e potente come se ne scrivevano una volta (oggi se ne scrivono anche di belli, ma di grandi e potenti non proprio). L’opera di uno che ha imparato a scrivere chiedendo dritte a Moravia (che gli diceva: «L’importante sono le ripetizioni, le riprese», la musica della prosa), e leggendo gli ex libris di Pasolini. Ed è anche un romanzo in diretta dal nostro presente (e, speriamo di no, dal futuro prossimo). Come nel passaggio sulla libertà «ormai trasformata in un concetto ostile, digrignante e imperdonabilmente plurale — le libertà, le infinite libertà in cui quella parola sarà stata smembrata, come la zebra viene smembrata dal branco di iene che la divorano».
Una cerimonia di morte di altissima, insostenibile, spiritualità suggella il racconto. L’ultimo pensiero di Marco è lancinante: «Babbo, mamma, Adele, Irene. Quante persone sono seppellite dentro di noi». Le ultime parole del Colibrì («Preghiamo per lui, e per tutte le navi in mare») sono le stesse con cui era cominciato (la ripetizione di Moravia).
Ho finito di leggere il libro alle 14.30 di mercoledì 7 agosto e, d’impeto, ho mandato un Whatsapp a Veronesi: «Applausi di gente intorno a me. Applausi, oceano di mani. Te li ricordi i Camaleonti? Applausi, Sandro. Scrivi ancora, anche se sarebbe forte l’idea di smettere dopo un romanzo così definitivo, di dolore e di speranza, che traghetta da un millennio all’altro, dal Mondo Vecchio al Mondo Nuovo. Un romanzo-saggio (in ogni accezione della parola “saggio”). Un grande romanzo europeo così come hanno saputo scriverli solo certi americani (Bellow su tutti). Devi esserne felice, ci sei tutto tu dentro. I tuoi personaggi (uno più bello dell’altro) diventano sempre, in questo libro superlativamente, persone che uno ha la sensazione di avere conosciuto nella vita. Tu eri un tolstojano kareniniano finora. Con Il c olibrì sei diventato un Tolstoj da vecchio, un visionario, un riformatore del mondo. Ma lo fai restando nella letteratura e non uscendone, l’errore che commise perfino quello scrittore senza errori che fu Tolstoj. Ci sono mille cose da dire ancora, su certe sequenze, su certe parole, su certi magheggi. Tu andrai con Il c olibrì per bocca di tanti, come dicono a Firenze. Se ne parlerà di questo romanzo. Andrebbe lanciato nello spazio per far sapere agli extraterrestri come eravamo, come siamo stati, come avremmo voluto essere. Da questo romanzo, pieno di coincidenze e collisioni fatali e maligne, si esce vivi imparando la lezione più difficile, quella di morire restando vivi».