Il Messaggero, 21 ottobre 2019
Contro l’evasione più controllori che secondini
Nell’estate del 1982 il governo annunciò, con un fervore entusiastico, di avere dichiarato guerra implacabile e risolutiva agli evasori fiscali. La trionfalistica notizia fu divulgata con la stessa edittazione solenne di questi giorni, e con lo stessa minaccia, tanto rude quanto scontata, delle manette.
Superfluo ricordare la fioritura di considerazioni etiche, economiche, sociologiche e persino religiose che accompagnarono favorevolmente questa benemerita intenzione, perché nulla è più pernicioso, in uno Stato civile, dell’impunità di chi non paga le tasse. Se lo Stato siamo noi, e quindi siamo noi a doverlo mantenere, sottrarsi a questo dovere è anche peggio che un crimine: è uno stupido errore.
Gli unici a dubitare dell’ efficacia di questa ennesima grida manzoniana furono proprio gli addetti ai lavori, cioè i magistrati (tra i quali chi scrive) che conoscendo la sgangheratezza del nostro sistema penale intravidero subito le insormontabili difficoltà di una reale applicazione della sanzione detentiva ai contribuenti infedeli.
Perché il reato fiscale è di valutazione dannatamente difficile: basti dire che molti accertamenti delle Agenzie delle entrate e della stessa Guardia di Finanzia vengono ridotti o annullati dalle Commissioni tributarie.
E quindi il giudice penale – se non vuole attendere l’esito del contenzioso amministrativo – rischia di decidere in modo difforme dall’organismo deputato alla verifica finale. In conclusione, dopo quasi quarant’anni dalla legge 516/82, le manette sono scattate, e solo per breve tempo, pochissime volte. Insoddisfatti di questi magri risultati, i governi successivi hanno aumentato i reati e e inasprito le pene. Niente da fare. Di evasori in galera non se ne sono mai visti.
Ora il governo ci riprova. Come i Borboni della Restaurazione, non ha imparato niente e non ha dimenticato niente. Non ha dimenticato il velleitario giustizialismo dei suoi predecessori, e non ha imparato la lezione, estremamente deludente, dell’effimera minaccia dell’arma penale. Non ha imparato, cioè, che minacciare una sanzione che non riuscirai mai ad applicare è peggio che non minacciarla del tutto, perché all’inesistenza del castigo si associa il discredito di chi lo ha minacciato invano.
Non solo. Abbassando la soglia di punibilità ( pare siano centomila euro) il governo smentisce sé stesso, perché la somma evasa, per quanto consistente, è del tutto sproporzionata all’entità delle pene previste, e produrrà, come conseguenza naturale, una cautela dei giudici che sconfinerà nell’indulgenza.
Chi ha esperienza di processi sa bene che tanto più le pene comminate sono irragionevolmente alte tanto più quelle concretamente irrogate sono tendenzialmente basse. Senza contare che se ad ogni accertamento provvisorio di evasione oltre i centomila euro dovesse conseguire una denuncia penale, le procure e i tribunali si intaserebbero, e i processi, compresi quelli per i grandi evasori, non si farebbero più.
E non è nemmeno finita. Se la prescrizione – come pare – resterà sospesa dopo la sentenza di primo grado, le cause si allungheranno all’infinito, e quindi non solo l’evasore non finirà in galera ma lo Stato non potrà nemmeno confiscargli i beni dissimulati.
Questo è il risultato dell’ennesimo approccio dilettantesco ed emotivo a questo eterno problema, che si continua a combattere (si fa per dire) facendo la faccia feroce per mascherare un braccio debole e impotente. Mentre l’esperienza dovrebbe insegnare che l’evasione tributaria si affronta non aumentando i secondini delle galere ma il numero e la professionalità degli addetti agli accertamenti, e soprattutto semplificando e razionalizzando una normativa a dir poco demenziale.
Queste ridicole leggi, integrate da prolisse circolari e appannate da incerte interpretazioni, non consentono a nessun contribuente, neanche al più onesto, di dormire sonni tranquilli, perché sono così contraddittorie da impedire di rispettarne una senza violarne un’altra. Fornendo così il pretesto ai veri grandi evasori di ignorarle tutte, continuando a gestire capitali in paradisi fiscali europei, protetti da una altrettanto demenziale e disomogenea disciplina che nessuno si sogna di cambiare.