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 2019  ottobre 19 Sabato calendario

Su "La spia che corre" di John le Carré (Mondadori), con intervista all’autore

Ed è un giovane ricercatore che odia Brexit e Trump. Nat è una spia di lungo corso, che a 47 anni torna in patria dopo aver servito a lungo come agente all’estero e si ritrova in una Gran Bretagna allo sbando, con un governo conservatore «di infima categoria» e un ministro degli Esteri «ignorante come una capra» (l’attuale premier Boris Johnson). All’Athelticus, dove i due giocano a badmington ogni lunedì, il cartello dice: «Non si parla di Brexit ad alta voce». Ma il romanzo è ambientato nel 2018. E come si fa a non parlare di Brexit? Come si fa a non chiedersi se la Gran Bretagna sia ancora la madre di tutte le democrazie?

Non spaventatevi. L’ultimo le Carré non è un polpettone politico, ma al solito il maestro della spy story serve sul piatto d’argento dei suoi lettori un’altra storia avvincente. Ci sono anche gli oligarchi russi, che usano la City come lavatrice di soldi sporchi per riciclare e fare i loro traffici. E i politici, nella fattispecie la moglie aristocratica di uno dei capoccioni dell’MI6, preferiscono fare affari con gli oligarchi e intralciare il lavoro delle spie che cercano di incastrarli. C’è anche una ragazza, una spia giovane e idealista, anche lei costretta a fari i conti con la realtà. Insomma, è un Carré che non risparmia nessuno, quello di La spia corre sul campo, il suo romanzo numero 25, uno dei più letterari, filosofici e profondi. Qui più che in altri libri - da La spia che venne dal freddo, il thriller che lo lanciò, fino a La talpa e a tutti gli altri che sono diventati film contribuendo alla sua popolarità - ha ragione quel filone della critica che lo ha sempre messo una spanna sopra la letteratura di spionaggio e accanto a scrittori come Graham Greene, Somerset Maugham o Joseph Conrad.

Nat ricorda un po’ George Smiley, il suo personaggio più popolare, la spia britannica letteraria per eccellenza, l’anti 007 di Ian Fleming, l’uomo comune alle prese più con colleghi arrivisti, procedure astruse e scartoffie dell’intelligenza che con i marchingegni mirabolanti alla James Bond.

Per cosa lottare, oggi che non ci sono più i buoni e i cattivi di una volta, che la cortina di ferro e la guerra freddo non delimitano più il campo, dove non si salva il mondo dal comunismo e le spie non sanno per quale motivo sono chiamate a rischiare la vita? 

L’intervista con l’autore
Davanti alla porta della casa londinese di David Cornwell esito un attimo prima di suonare, mentre mi domando se mi dovrò rivolgere a lui con il suo vero nome oppure usare John, ossia John le Carré, lo pseudonimo con cui firma i suoi libri da 58 anni, quando uscì Chiamata per il morto, il primo di una lunga e fortunata serie di successi che lo hanno reso lo scrittore di spionaggio più famoso, letto e amato al mondo. Il romanzo numero venticinque – La spia corre sul campo – esce mentre David compie 88 anni, esattamente oggi.

La questione è subito risolta dalla dolcissima moglie Jane che apre la porta con un sorriso e in una sola frase scioglie due questioni: «David la sta aspettando. Preferisce un tè o un caffè?». Vada per David e per il caffè. Intanto lui appare sulla soglia di un salotto assolutamente inglese (carta da parati a fiori alle pareti), in pantaloni di velluto marroni, camicia rosa e gilet beige con i bottoni. Decidiamo di posizionarci vicino alla finestra, grande e luminosa, che affaccia su un giardino, anch’esso assolutamente inglese. Anche David opta per il caffè. «Niente tè inglese, in questo momento mi sento molto europeo. Ho anche chiesto il passaporto irlandese» ride.

«Stia attenta» aggiunge, mentre ci accomodiamo su due poltroncine. «Sono un sovversivo, i miei libri sono distruttivi e sono il rappresentante di una letteratura di controspionaggio nichilista. Guardi qua».

Sul tavolino c’è una copia del «Times» dove l’ex capo dei servizi segreti di sua maestà, Sir Richard Dearlove, lo attacca in modo violento, definendo i suoi libri «un tradimento» e sostenendo che gli ex colleghi di MI5 e MI6 sono molto arrabbiati con lui, per come scredita il lavoro delle spie britanniche.

«È un commento semplicemente idiota. Io un traditore. Se penso a quanti agenti sotto copertura sono stati uccisi per colpa di traditori veri, come Kim Philby. Comunque, tutta pubblicità. Non potrei chiedere di meglio con il libro in uscita».

Più che un nichilista, le Carré è il tipico esemplare di intellettuale inglese liberale e progressista, fieramente democratico e anti-Brexit, che assiste allibito allo spettacolo «indecente» (parole sue) della politica. Più che traditore, si sente lui tradito da quanto sta accadendo.

Per questo ha deciso di ambientare la sua ultima spy story al tempo della Brexit?
«Due anni fa, quando ho iniziato a scrivere, non si era ancora a questo punto. Poi la mia domanda è diventata: come puoi gestire un servizio di intelligence quando il Paese non ha una politica? La Gran Bretagna è senza direzione. Siamo una nazione divisa all’interno, abbiamo perso il senso della decenza e la ragione».

Il suo agente Nat, che per certi versi ricorda il fortunato personaggio di George Smiley, è un patriota deluso. Un po’ come lei?

«Non puoi scrivere senza mettere qualcosa di te. Solo allora i personaggi iniziano a prendere corpo e a parlarti. Io inizio a scrivere al buio e come la storia evolve scopro anche qualcosa di me stesso. È normale. Mentre si scrive si provano le storie come fossero vestiti. E lo stesso faccio con i personaggi».

Quindi anche lei è un patriota deluso?
«È importante non confondere patriottismo con nazionalismo. Il nazionalista, quello che vediamo oggi nelle strade, ha bisogno di nemici. Ho scritto il libro troppo presto per catturare l’attuale demonizzazione dell’Europa e un po’ mi dispiace. Ma la verità è che non avrei potuto scriverlo in questa atmosfera».

Atmosfera avvelenata. Accuse, parole grosse, insulti, un primo ministro che chiude il Parlamento. Lei crede che la Gran Bretagna sia ancora la madre di tutte le democrazie?
«Ci siamo persi. Stiamo facendo le stesse cose dei paesi che prendevamo in giro, compresa l’Italia. Noi eravamo così superiori, stabili e calmi, così razionali e pragmatici. Dove è finita la nostra flemma? Ci siamo resi conto che la nostra democrazia è molto più fragile di quello che pensavamo».

Quando Nat confessa alla figlia di essere una spia, lei gli fa dire parole pesanti: «Un governo conservatore di infimo livello e un ministro degli Esteri ignorante come una capra che si suppone io debba servire». Pensi se Nat sapesse che Boris Johnson è diventato primo ministro.
«Un narcisista ossessivo, totalmente senza principi, probabilmente mezzo pazzo. Un oratore etoniano della peggiore specie. La sua vita privata in teoria non sarebbe importante. Ma un uomo che non riesce a controllare se stesso…».

Lei si riferisce alla litigate in casa con la fidanzata, in cui l’ha minacciata. E alle chiacchiere sulle sue storie?
«Non è questo. Se non riesci a controllare i tuoi istinti, come puoi governare un Paese? È un bambino, il fratello naturale di Trump».

Non esageriamo.
«Dico sul serio. Johnson è molto istruito, l’altro molto ignorante, entrambi senza principi. Il loro modello è comune: fregatene della verità. La verità è quello che dico io. Penso anche che siano due codardi, che evitano il confronto e le situazioni spiacevoli».

La Gran Bretagna non è ancora una dittatura…
«Qualcuno della scuola di Steve Bannon lavora sodo per diffondere l’arte della manipolazione delle masse e come distruggere la costituzione, le istituzione e il sistema del check and balances che è alla base della nostra democrazia».

Quindi?
«Vorrei chiedere a Bannon: quando hai distrutto tutto quello che non ti piace, come fuzionerà la nuova società che hai in mente?».

La riposta naturale a questa domanda è una sola: una dittatura.
«Appunto. Boris Johnson ha iniziato a nutrire gli eurofobici fin da quando faceva il corrispondente da Bruxelles. Proprietari terrieri, vecchi fascisti, nostalgici della vecchia Inghilterra, gente con un sacco di soldi all’estero, che sta scommettendo contro la sterline, e come Soros ai suoi tempi, guarda caso guadagna fortune con la Brexit».

Non è una visione un po’ troppo da cospirazione?
«Io ho insegnato a Eton (il più prestigioso collegio maschile d’Inghilterra, retta da 35mila sterline ndr), conosco questa gente. C’erano dodici etoniani al governo quando la Gran Bretagna occupò il canale di Suez. Una fantasia post imperialista. Gente orribile, nazionalisti e nostalgici».

Dovrebbero essere l’élite del Paese.
«Sono super competitivi, non vogliono governare, vogliono vincere. È un gioco tra maschi, e quando stanno insieme in una stanza, si infettano a vicenda. Ed è ridicolo che loro, si pongono come i rappresentanti del popolo contro le élite».

Nei suoi libri ambientati durante la Guerra Fredda c’erano sempre i buoni e i cattivi. Ora c’è il sospetto degli hacker russi dietro il referendum Brexit, l’elezione di Trump, il populismo in Europa. Altro tipo di intelligence… Chi sono i buoni adesso?
«Questo è il problema. La gente perbene e razionale non ha voce, in questo momento, non sanno rivolgersi alla folla. Quindi da un lato abbiamo Corbyn, un leninista antisemita. E dall’altra questi matti che ogni giorno di più assomigliano a una organizzazione neofascista. Siamo tornati agli anni Trenta».

La storia non si ripete mai uguale, dicono.
«La storia si ripete come una commedia o una tragedia. Stiamo ricreando il clima della guerra. Pensi alle parole usate: i remainers sono definiti traditori e collaboratori, accordarsi con Bruxelles è una resa, bisogna liberarci del Parlamento e dei giudici».

Ancora Russi e Americani. Peggio Putin o Trump?
«Assolutamente Trump. La Russia non ha mai sperimentato la democrazia. Putin ha distrutto qualcosa che non c’era. Invece i danni di Trump rimarranno a lungo. Ha minato la costituzione americana, ha distrutto qualcosa di molto prezioso, ossia l’indipendenza della magistratura».

Mary Mont, la sua editor alla Viking, ha detto che in tempi come questi c’è bisogno di gente come lei. Perché?
«Perché so trasformare la mia rabbia in intrattenimento e tirarne fuori una storia. E qui credo di aver saputo distillare bene il tutto».

Da Ali Smith a Jonathan Coe a Ian McEwan, gli autori inglesi sembrano non poter resistere alla tentazione di scrivere di Brexit.
«Io scrivo per il mio pubblico, che si aspetta da me dei libri piacevoli e intriganti e intelligenti. Scrivo per intrattenere e comunicare i miei sentimenti. Non leggo narrativa contemporanea per non farmi influenzare. E sa perché? Perché sennò inizierei a scrivere per il pubblico sbagliato».

E cioè?
«Per i critici. Non voglio essere in questo circolo. Scrivere non è una corsa di cavalli, dove uno vince e uno perde».

Per questo non partecipa ai premi letterari?
«Non corro e non li cerco. Ma quando me li hanno dati non li ho restituiti, perché non voglio essere maleducato».

Però ha rifiutato di essere nominato cavaliere.
«Due volte, sì. Non è roba per me».

Da scrittore di spionaggio, pensa che la Brexit ci sarà o no?
«Impossibile da dire. L’uomo più saggio del mondo non potrebbe rispondere a questa domanda».

Sarà il suo ultimo libro?
«Chi può dirlo. Ho tante idee che mi frullano in testa, ma finché il libro precedente non è pubblicato, non riesco realmente a mettermi a scriverne uno nuovo. E in questo periodo sto lavorando sodo alla riduzione televisiva per Bbc di Un passato da spia. In pratica lavoro tutto il giorno. È la mia vita. Mi piace lavorare».

Tutto il giorno?
«La mattina. Poi se riusciamo, andiamo a pranzo fuori, tanto per cambiare scenario. E poi nel pomeriggio Jane batte quello che ho scritto, perché scrivo a mano. Poi faccio una passeggiata».

Preferisce lavorare nel ritiro del suo cottage in Cornovaglia o a Londra?
«È un equilibrio. Dopo un mese in Cornovaglia, parli con i gabbiani e hai bisogno di tornare in città».

Niente più chalet in montagna? Quello era il suo rifugio, prima.
«No, lì ormai va solo la famiglia. E’ sempre piena, visto che ho quattro figli, tre nipoti e 14 bisnipoti».

Mi toglie un’ultima curiosità: perché Ed e Nat giocano proprio a badminton?
«Ci ho giocato tanto e si può praticare fino a 80 anni, anche se è più violento e veloce dello squash».

Siete proprio strani, voi inglesi.
«È vero. Pensi che abbiamo inventato anche il cricket. Con questo clima… partite che durano cinque giorni. Deve essere piuttosto interessante guardarci dall’esterno, soprattutto di questi tempi».