Il Sole 24 Ore, 20 ottobre 2019
Moda, il ritorno dei paninari
Si può già scrivere una storia della trap italiana? Riformulando meglio la questione: si potrà mai scrivere? Questo sempre più frequentato sottogenere – disimpegnato e dadaista – del rap, nato nel Sud degli Stati Uniti negli anni Novanta in contesti di para-criminalità, qui da noi ha trovato terreno fertile, tanto da rappresentare ormai la musica mainstream dei millennial. Qui da noi è insomma un fenomeno relativamente nuovo, esploso intorno al successo di Sfera Ebbasta e Ghali: si presterebbe a una ricostruzione storiografica dei fatti?
Forse no: troppo frammentata la scena, disordinata l’offerta musicale, giovane il movimento, incerti i suoi orizzonti. Considerazioni figlie della lettura de L’età della tigre, libro che Ivan Carozzi dedica alla trap italiana e, in un certo senso, a Milano, la città che la ha in larga parte generata. Non è un saggio nel senso tradizionale del termine, con una cronologia dei fatti da seguire e una bibliografia su cui poggiare i piedi, ma una specie di reportage New Journalism nel quale l’autore non si elide, non si nasconde dietro la prima persona plurale, né rinuncia a interagire direttamente con l’oggetto della propria narrazione: è personaggio. Non è un romanzo vero e proprio ma, per elaborare i fatti, si lavora pure di sensazioni. Qualcosa di simile, nell’approccio, a Dispacci di Michael Herr, solo che al posto della guerra in Viet Nam ci sono i Rolex sfoggiati da Sfera Ebbasta sul palco del Concertone del Primo Maggio 2018. Seguiranno accanite polemiche.
La ricchezza, appunto, uno tra i macro-temi della poetica trap accanto allo sballo da Sciroppo e alla donna ridotta al ruolo di bitch. Una ricchezza intesa come occasione còlta di mobilità sociale per chi proviene dalle grandi periferie urbane. Perché Sfera Ebbasta, se vai a grattare la superficie, non è molto diverso dai paninari che negli anni Ottanta trovavi all’uscita del Burghy: togli Timberland e Moncler, metti Gucci e Louis Vuitton. Meglio ancora: tra Sfera «che svuota una bottiglia di champagne sopra un marciapiede in corso Garibaldi», Silvio Berlusconi che, alla presentazione del suo primo Milan, «atterra a bordo di un elicottero sul prato» e il paninaro «tutto abbronzato» di cui sopra che «nella sua neolingua fatta di arrapation e vaffanbyte si vanta dell’accessorio One Star di fronte a un fast food in piazza San Babila», secondo Carozzi «scorre un fil rouge, li lega un tratto insopportabilmente locale, capitalista, ganassa, che si duplica di generazione in generazione». Non sarà clean cut come Berlusconi e il paninaro degli anni Ottanta, ma anche per l’arcangelo della trap, finito suo malgrado sotto i riflettori della cronaca generalista per la strage di Corinaldo e adesso cliccatissimo giudice di X Factor, farcela è la cosa che conta più di tutto il resto. «Se vuoi qualcosa così tanto, se pensi solo a quello, la tua mente ti porta a visualizzarla, ad agire e a fare le cose giuste per riuscire a ottenerla», recita una celebre massima di Sfera Ebbasta. Devi farcela a qualsiasi costo, non c’è legge o convenzione sociale che tenga, se vuoi salvarti. Questi particolarissimi eroi dei nostri giorni, che si chiamino Achille Lauro o Dark Polo Gang, Rkomi o Young Signorino, hanno in comune storie simili: umili origini di periferia degradata, pedigree orgogliosamente meticcio, smisurata ambizione.
La famiglia («Non toccare me e la mia famiglia», canta Capo Plaza) è il loro universo di riferimento. Laddove il termine può essere inteso più o meno in senso letterale, perché spesso i padri sono assenti (in carcere o scappati via) e le madri (bidelle, commesse, donne delle pulizie) per i loro figli sono tutto. E tutto il contrario dello stereotipo di cagna cui i trapper relegano la figura femminile. «Il tema della casa natale, – scrive Carozzi – del rione, dell’infanzia, del parchetto consumato nell’adolescenza, dei vecchi amici di sempre, del motorino, delle stecche di hascisc confezionate nel nylon, dei palazzoni, delle architetture di periferia che ti hanno visto crescere, di ciò che non c’è più e si rischia ogni giorno di perdere a furia di dischi d’oro e di platino, sono questioni che ricorrono nella poetica di Ghali e di Sfera Ebbasta».
Ultima venne la musica. E con la musica l’Auto-Tune, software per la correzione dell’intonazione brevettato nel 1997 da Andy Hildebrand, matematico che per conto di Exxon si era assunto il compito di correggere le onde dei sonar. Strumento divenuto cifra stilistica del genere: una specie di T-9 per chi canta, anche se «fatico a scrivere “cantante”», si legge ne L’età della tigre. «L’aggiunta di un filtro vocale per correggere l’intonazione rende un artista che usa l’Auto-Tune più simile a un ibrido che non a un corpo umano dotato di una particolare cassa armonica, al pari di un Beniamino Gigli o un’Anna Oxa». Uno stratagemma inteso dall’autore come «immagine dell’accelerazione, della geometrica potenza tecnologica… metafora acustica di una spinta verso un reame sconosciuto nel quale siamo risucchiati. Perciò la passione per il software rivela qualcosa di intimo e decisivo su di noi». Qualcosa che, secondo Carozzi, è «lo spirito del tempo». Stai a vedere che, più che un T-9 per chi canta, forse l’Auto-Tune è il T-9 dell’anima.