Il Sole 24 Ore, 20 ottobre 2019
Storia del Sor Pasquino che protestava col pizzino
«Un immenso popolo di statue» riempiva Roma, scrive Cassiodoro, e qualcuna di esse imparò perfino a “parlare”. Come Madonna Lucrezia o il Marforio: sculture antiche con nomi di fantasia, a cui qualcuno attaccava una cedola, cioè un biglietto di carta (vogliamo chiamarlo “pizzino”?) con qualche spiritosaggine da mettere in mostra. Ma nessuna statua mai fu tanto loquace quanto il Pasquino: chi oggi gli rende visita al suo usuale indirizzo, a un passo da piazza Navona, può leggere, precariamente attaccati al piedistallo, epigrammi o proteste d’ogni sorta. Un’usanza che dura, ininterrotta, dal 1501. Questa mutila scultura venne battezzata con un nome alla buona, come fosse un vicino di casa, un “mastro Pasquino” che a seconda delle fonti contemporanee era stato un oste, un maestro di scuola, un barbiere, un sarto, comunque pettegolo e dedito a elaborate maldicenze. Il suo spirito si era quasi incarnato nella statua, dandole voce. Ma quel marmo, a guardarlo bene, ci riserba subito una sorpresa: non rappresenta una persona, ma due, entrambe assai malconce. Lasciamolo dire a chi di descrizioni se ne intendeva, Giovan Battista Marino. Il suo celebrato Adone (1623) c’informa che il Pasquino «non ha pié, non ha stinchi ond’ei si regga,/ ha l’orecchie recise e il naso monco. / Io non so come scriva e vada e segga,/ ch’è storpiato e smembrato e zoppo e cionco. / Ma benché così rotto egli si vegga /che del corpo gli resta appena il tronco, non pertanto l’audacia in lui si scema, / poiché sol della lingua il mondo trema».
Una figura, anzi due. Di marmo come gli eroi antichi, ma con l’anima di un malizioso popolano. «De le man privo e de le braccia entrambe», eppure «la lingua sua vie più che spada taglia, / la penna sua vie più che fiamma cuoce» (ancora Marino). A questo portentoso marmo vivo, che scrive senza mani e parla senza bocca, Maddalena Spagnolo ha dedicato una ricerca appassionata e puntuale, che si legge come un romanzo. Ha ridato vita a Pasquino proprio perché non si è accontentata della propria disciplina (la storia dell’arte), ma ha esteso l’indagine dalla statua alla piazza, dalla piazza alla città. Ha ripercorso la “biografia” del Pasquino, i riti e le feste che gli erano connessi, le tecniche e la funzione dei vituperi che gli anonimi autori delle “pasquinate” gli mettevano in bocca, i loro riflessi dalla plebe alla Curia, dalle segrete stanze di papi e cardinali alle strade di Roma. Il suo, insomma, è un libro non solo di storia dell’arte ma anche di storia culturale e sociale, e perfino di urbanistica, perché ricostruisce modalità del vivere gli spazi nel loro continuo modificarsi nel tempo.
Oggi gli archeologi vedono in quella malandata scultura Menelao che sorregge il corpo di Patroclo, una scena della guerra di Troia nota in varie repliche, tutte derivate da un originale ellenistico e forse talvolta adattate a rappresentare altri eroi omerici. Ma la vitalità di questa statua parlante ha poco a che vedere con tali classificazioni erudite, e nasce piuttosto, per dirlo con l’autrice, dalla «forza del frammento», un torso gettato lì sul cantone di un palazzo, in un luogo di passaggio più volte rimaneggiato nei secoli, ma sempre rispettando la sua presenza. Nulla, infatti, sfida l’intelligenza e la fantasia quanto un frammento, che rimanda all’intero e incita a figurarselo nella mente. Ma il caso del Pasquino è davvero speciale: la sua collocazione in luogo assai frequentato innescò infatti non solo la regolata immaginazione antiquaria dei dotti, ma anche le fantasticherie di chiunque volesse parlare per sua bocca. Da questa doppia radice nacque la sensazionale fortuna del Pasquino, in tutti i suoi filoni: l’ammirazione e l’imitazione degli artisti, i periodici travestimenti della statua in occasione del «dì di Pasquino» (ogni 25 aprile), le congetture su chi mai rappresentasse quel marmo informe, il confronto con altre statue simili; infine, le “cedole” che gli danno voce. In una gustosa pagina del libro, anzi, Maddalena Spagnolo ci mette davanti a una scoperta archivistica, l’originale di una “cartuccia” (piccola carta) attaccata al Pasquino nel 1594, e ritrovata negli atti di un processo: «O misera te Roma, governata da ladri, tiranni et assassini, che son Giovan Francesco e gli altri Aldobrandini...», cioè i nipoti del papa regnante, Clemente VIII. Si capisce che un servitore fosse spedito a staccare la “cartuccia” dal marmo, e che ne nascesse poi un processo.
Per quanto roso dagli anni e disarticolato da fratture e lacune, il Pasquino mostrava tuttavia i segni di un’eccellenza di stile che attirava lo sguardo degli artisti. E infatti ne leggiamo la più antica menzione nel bizzarro poemetto archeologizzante dedicato a Leonardo verso il 1495 da un anonimo Prospectivo melanese depictore. Tra Cinque e Seicento lo troviamo paragonato ai massimi esempi di arte classica, dal Torso di Belvedere al Laocoonte. Entusiastici giudizi vengono attribuiti a Michelangelo e a Bernini, e non manca chi se ne procura un calco, come Federico Borromeo, convinto che fosse «una delle più belle statue di tutta l’antichità», e che a partire da quel che ne resta, «poco ma eccellente, si può arrivare al perfetto» (circa 1595). Intanto si svolgeva ogni anno (almeno dal 1510 al 1540) un curioso rituale: ogni 25 aprile quel «moccicone di sasso corroso dal tempo edace» (così Francesco Fulvio Frugoni, 1687) veniva addobbato con panni, stucco e cartapesta, trasformandolo nei personaggi più vari, come possiamo vedere nei frontispizi dei Carmina ad Pasquillum o Versi posti a Pasquino, rari libretti stampati per ogni «dì di Pasquino». Di anno in anno, assumevano l’instabile identità della statua dei ed eroi come Marte, Apollo, Mercurio, Orfeo, Proteo, Ercole, Argo, ma anche personaggi femminili (Fortuna, Pace, Sibilla). Travestimenti, certo, che però rispecchiavano la difficoltà di dare un nome all’amputato marmo e la voglia di “restaurarlo”.
Ma quale era il tema autentico (cioè antico-romano) della scultura? Il Prospettivo Milanese lo leggeva come un Ercole, altri come Alessandro Magno, un suo guerriero, un gladiatore. A dare una risposta a questa domanda provvidero gli antiquari; ma avevano bisogno, per avventurarsi su quel terreno scivoloso, di qualche aiuto. E furono le copie a fornirlo. Verso il 1550 una replica dello stesso gruppo (assai meglio conservata) emerse vicino al Mausoleo di Augusto, e finì in collezione Soderini, poi Strozzi: Ulisse Aldrovandi, nelle Statue di Roma, lo chiama «un Pasquino che abbraccia un Antheo morto da una ferita, opra molto lodata da Michelangelo». Il nome “Pasquino” è ormai l’etichetta identificativa di una tipologia scultorea, subito riconosciuta per tale quando, vent’anni dopo, un terzo Pasquino emerse dal suolo a Porta Portese. Cosimo de’ Medici, primo granduca di Toscana, riuscì ad assicurarsi queste due repliche per la sua Firenze (oggi si trovano a Palazzo Pitti e nella Loggia dei Lanzi). Si inscenava dunque, nel nome (letteralmente) di Pasquino, l’inatteso prologo a una scoperta che avrebbe preso forma compiuta solo nel tardo Settecento: la serialità della scultura classica, la derivazione di più copie da un solo originale. Occasionalmente intuita da altri antiquari, questa idea vincente fu presentata dal grande Ennio Quirino Visconti, che proprio al Pasquino (e ai suoi “fratelli”) dedicò nel 1789 un lucidissimo testo, identificandovi Menelao e Patroclo dal libro XVII dell’Iliade.
Il Pasquino era ed è nel rione di Parione, «quasi nell’ombilico dell’habitato di Roma» (Pietro Felini, 1610): questa sua collocazione lo predisponeva a un ruolo filo-papale, come nelle processioni in occasione del Possesso di un nuovo papa. In altre circostanze, durante i periodi di Sede Vacante ma non solo, l’impertinente Pasquino inveiva invece contro i potenti della curia o i nipoti del papa. In questo contesto poteva tornar di moda festeggiare il pontefice travestendo la statua da Liberalitas, come fu nel Possesso di Gregorio XIV (1590), o da Nettuno, come nel Possesso di Innocenzo X (1644). Ma mentre persisteva, nelle feste e nelle “cedole”, il Pasquino più popolare, e mentre gli antiquari s’interrogavano sulla vera identità e sul concitato gestire delle due figure del gruppo, gli artisti non cessavano di studiarlo e di ispirarsene, seppure alla lontana. Fra gli altri, e su questi esempi il libro giustamente indugia, il San Matteo di Michelangelo, il Moro berniniano di Piazza Navona e un altro San Matteo, quello del Caravaggio in San Luigi dei Francesi. Travestimenti anche questi, forse. Ma di una densità e di una forza che nessun “dì di Pasquino” potè mai rivendicare.