Il Sole 24 Ore, 20 ottobre 2019
A tavola con Stefania Bariatti
«Due giorni dopo la mia nomina a presidente di Mps, entro in una libreria vicina a Rocca Salimbeni, la sede della banca, per comprare “La Terra in Piazza”, un libro sul palio e sulle contrade. La commessa si avvicina e mi dice: “Buongiorno, presidente”. Io la guardo e le chiedo: “Scusi, ma come sa chi sono?”. E lei mi risponde: “Signora, noi la conosciamo tutti”».
Stefania Bariatti – 62 anni, due figli gemelli di 27 anni, Giorgio e Giacomo – è una signora cordialmente distinta che appartiene alla borghesia milanese. È una professoressa ordinaria di diritto internazionale alla Statale che, nel 2015, è entrata nel consiglio di amministrazione del Monte dei Paschi di Siena – con Alessandro Profumo presidente e Fabrizio Viola amministratore delegato – diventando membro del comitato rischi e del comitato parti correlate. Nel dicembre del 2017, quando la banca è stata nazionalizzata con una operazione che i giuristi hanno definito “ricapitalizzazione precauzionale” e gli investitori hanno chiamato “ultima spiaggia”, il Ministero delle Finanze ha assorbito il 68% delle azioni e Bariatti è stata nominata presidente.
Siamo da Tullio ai Tre Cristi, le volte basse e i pochi tavoli discosti, la nomea pubblica di ottimo ristorante di pesce e la fama silenziosa – perché tutto, a parte il clangore e il clamore del palio, a Siena è stato per secoli silenzioso – di luogo appartato del potere, buono per mangiare e bere e per fare incontri riservati e sotto gli occhi di tutti, perché nulla a Siena – come ha subito insegnato la libraia alla presidente di Mps – si vede più di ciò che si cela ed è più noto di quello che si nasconde.
Nel menù di Tullio ai Tre Cristi, lei sceglie un crudo di mare composto da tre diverse tartàre: orata, tonno e mezzancolle, più scampi e gamberi rossi con una ostrica. Io, invece, scelgo un antipasto toscano: crostini neri senesi, capocollo, salame e salsiccia, pecorino con due stagionature diverse, più un tortino di verdure di stagione disteso su una fonduta di pecorino e con, in cima, una striscia di pancetta al forno.
Negli anni delle fusioni bancarie, da socia e da responsabile del settore antitrust dello studio legale Chiomenti, Bariatti ha seguito a Milano e a Bruxelles fusioni come quelle di Unicredit con Capitalia, Banco Popolare di Verona e Novara con la Banca Popolare di Lodi, Mps con Antonveneta. È, dunque, una specialista di banche e di operazioni straordinarie, all’incrocio fra i codici e la sfera pubblica, i regolatori e gli interessi degli azionisti. La sua cifra è prettamente milanese: «Mio padre Raimondo, chirurgo all’ospedale Niguarda e presidente della federazione nazionale degli ordini dei medici, apparteneva alla sinistra democristiana di Giovanni Marcora. Mia madre Maria Alda Bencini, anche lei medico, era liberale. Vivevamo in via Canova, vicino all’Arco della Pace. Ho fatto il liceo classico al Beccaria. Mi sono laureata alla Statale con Mario Giuliano, internazionalista e deputato comunista a cui la contestazione extraparlamentare e studentesca dedicava il tazebao “barone rosso, berlina blu, lavoro nero”, per indicare la sua ascendenza nel Pci, il suo status da prorettore e lo stuolo di assistenti volontari intorno a lui all’università».
Nella sua identità personale di borghese milanese di cultura e simpatie progressiste, Bariatti è antropologicamente distante dalla cifra di Siena: «Prima di entrare nel consiglio di amministrazione, a parte il lavoro incentrato sull’antitrust per Mps-Antonveneta, sarò venuta qui due volte. O vieni da ragazza in gita scolastica o vieni, da adulta, per l’arte o il palio. Una volta ho scritto un parere per un giudizio a Londra su un contenzioso fra gli eredi di Lord Antony Lambton, il conte di Durham che, dimessosi nel 1970 da sottosegretario di Stato alla difesa del governo inglese per uno scandalo sessuale, si era ritirato nella meravigliosa Villa Cetinale, a Sovicille, nella campagna senese», racconta Bariatti, che è astemia e dunque beve soltanto acqua minerale, mentre io invece prendo del Rosso di Montalcino.
Ci troviamo nella contrada della Giraffa, in un vicolo a cento metri dalla Chiesa di Santa Maria di Provenzano, in questo strano mezzogiorno con una luce quasi prenotturna e questo umidore nell’aria sempre prossimo alla pioggia che rappresentano bene il senso di attesa e di fine, di prossimità alla caduta e di conservazione fuori dal tempo di una città e di un mondo particolari, anche se le suggestioni romantiche evaporano di fronte al pensiero concreto di uno dei più clamorosi crac finanziari ed economici, politici e civili sperimentati dal nostro Paese negli ultimi trent’anni: l’ascesa e la caduta di Giuseppe Mussari, il collasso della banca, la riduzione a pochissima cosa della fondazione, la trasformazione del groviglio di potere di Partito Comunista e massoneria in un osso di seppia lasciato sulla battigia della Storia, la città spogliata della ricchezza che copiosa copriva tutto (e tutti), quasi che per la responsabilità degli uomini e per un sortilegio medievale una mano di tinta nera avesse all’improvviso nascosto, nel Palazzo Pubblico della città, gli affreschi del buon governo di Ambrogio Lorenzetti, lasciando invece intatti quelli del cattivo governo.
«La tendenza all’isolamento di Siena è stata resa definitiva dalla scelta di Amintore Fanfani di fare passare l’Autostrada del Sole da Arezzo. Siena è sempre stata una città Stato, immersa in quella dimensione che gli internazionalisti e i filosofi definiscono di legibus solutus, al di sopra dei sistemi e in grado di determinare i contesti degli avvenimenti e i tempi delle cose», nota Bariatti.
Arrivano i piatti di portata: per lei branzino al tegame con vongole, zafferano e carciofi e, per me, tortiglioni con ragù bianco di faraona e mele, calvados e pecorino di fossa. Il tavolo rotondo enorme e i tovaglioli ricamati, le saliere e le oliere, i colori dei legni alle pareti e gli odori provenienti dalla cucina, le luci soffuse e i lampadari appena accesi. L’atmosfera è la versione cittadina e patrizia dell’anima del contado senese rappresentata da Federigo Tozzi in “Con gli occhi chiusi”: «Usciti dalla trattoria i cuochi e i camerieri, il padrone rimase a contare in fretta, al lume di una candela che sgocciolava fitto, il denaro della giornata». Il denaro della giornata. Qui, a lungo, la banca se non è stata tutto, certo è stata molto: soldi, soldi e ancora soldi per tutti, chiunque organizzasse qualcosa poteva rivolgersi alla “muccona”, come veniva chiamata la banca con un vezzeggiativo di un affetto alimentato dal benessere e dalla dipendenza.
Bariatti, quando arriva in città, dorme in albergo. E, insieme all’amministratore delegato Marco Morelli, prova a ricostruire – su nuove basi – un rapporto con la città. «Nessuno mi ha mai chiesto nulla di opaco o di ambiguo, anche perché la condizione della banca è totalmente differente rispetto al passato». C’è la struttura del potere, consunta nei suoi vecchi codici. Ci sono gli addentellati con i circuiti internazionali, assottigliati a carta velina. Ci sono i soldi, incomparabilmente meno abbondanti. Nel 2001 la pubblicità, che incorporava le sponsorizzazioni, superava i 90 miliardi di lire. Dal 2002 questa voce onnicomprensiva ha avuto un budget che è variato dai 30 ai 60 milioni di euro all’anno. Dal 2011, le sponsorizzazioni sono una voce singola: in quell’anno, l’ultimo di Mussari, ammontano a 25,6 milioni di euro. Sulla città pioveva ogni anno – per usare la moneta del Novecento, per una pratica assolutamente da Novecento – una cinquantina di miliardi di lire. Ora questa somma è ben diversa. Nel 2017, le sponsorizzazioni sono state pari a 625mila euro. Nel 2018, a 307mila euro.
Nelle prossime settimane si determinerà il futuro di Mps. La direzione della concorrenza dell’Unione europea potrebbe valutare la proposta del Mef per la scissione di 10-14 miliardi di euro di crediti deteriorati. Per fine dicembre il governo italiano dovrebbe dettagliare l’uscita dal capitale, in programma entro il 2021. Prima o poi qualcuno – banca, fondo di investimento o fondo speculativo – comprerà Monte dei Paschi. E, a quel punto, cambierà di nuovo tutto, in maniera irrimediabile.
Bariatti è anche una avvocato di diritto internazionale privato: «Mi capita di occuparmi di vicende molto diverse,dai bambini contesi fra genitori di nazionalità differenti ai contenziosi fra imprese collegate alla Brexit». Ma è a Siena in quanto tecnica: «Il dialogo con la Bce e con la Commissione europea investe l’intero vertice della nostra banca. C’è un problema di capitale, di conti e di strategie. E c’è un tema di impatto sulla città. Di Siena, della sua storia, della sua bellezza e della sua organizzazione sociale unica basata sulle contrade, ci si innamora. Si sente la responsabilità di ridurre l’impatto di una situazione drammatica. Siamo riusciti a contenere il calo degli addetti a 5mila persone. Questo a fronte di una richiesta avanzata dalla DG Concorrenza della Commissione europea di un ridimensionamento degli occupati, qui, che non era lontano dal doppio».
Entrambi beviamo il caffè. Io ottempero al rito senese dei cantucci con il vin santo. Usciamo nel Vicolo di Provenzano. Sul sagrato davanti alla chiesa che conserva la Madonna di Provenzano, venerata come “advocata nostra”, i contradaioli della Giraffa stanno predisponendo tavolate e sedie. Alla sera si terrà una cena per concludere i festeggiamenti della vittoria ottenuta nel palio di luglio. E, mentre Stefania Bariatti saluta e si avvia verso Rocca Salimbeni, mi vengono in mente le parole di Mario Luzi «mi guarda Siena / da dentro la sua guerra / mi cerca dentro con gli occhi». Qui tutto si ripete, ma nulla è più come prima.