il Fatto Quotidiano, 20 ottobre 2019
Lunga intervista a Mika
L’ossessione che diventa passione, o la passione che si tramuta in ossessione, è la sua salvezza; la forza arriva dal dominare quello stesso mix, dal relativizzare i presunti e reali punti deboli, dal superare una forma di dislessia, l’emarginazione da scuola per colpa di una maestra poco attenta, il bullismo, un padre assente del quale rifiuta pure il cognome, una madre tosta che ora sta molto male; scoprire l’omosessualità a 13 anni (“e mi sono detto: o riesco a diventare uno di enorme successo o sono morto”), e tutta una lunga serie di altri pregiudizi, follie, inciampi.
Oggi lui è Mika, 36 anni, vera star internazionale della musica e della televisione, parla un’infinità di lingue, riflette su ogni sillaba, approfondisce ogni sospiro della vita, non intende piangere, e tra lui e il mondo non piazza scuse per non riuscire negli obiettivi. (“Per questo il mio ultimo album si chiama My Name Is Michael Holbrook: dovevo affrontare il mio passato, a partire dal nome”).
L’ossessione è la chiave per arrivare al successo?
Prima decliniamo cos’è il successo, perché oggi si misura solo con i soldi, e lo trovo sbagliato.
Cambiamo: l’ossessione è la chiave per raggiungere l’obiettivo?
È così, ed è importante: può nascere pure come reazione a un disagio, tanto da renderti l’esistenza più vivibile.
Cioè?
Quando ti senti estromesso dalla narrazione quotidiana o dal contesto generale, per trovare un tuo habitat puoi diventare ossessivo, e a quel punto il problema passa alla tua famiglia e a come riesce ad approcciarsi a te.
Punta alla perfezione?
Cerco di risultare eccellente almeno nel mio linguaggio, e nonostante i miei limiti.
Quali limiti?
Suono male il pianoforte e ho una voce particolare che non mi permette eccessive variazioni: non posso toccare le corde blues, anche perché provengo da una formazione lirica.
La sua voce la caratterizza.
Non è così: sono cosciente dei limiti e devo lavorare per superarli, per diventare eccellente, non eccezionale.
(È ora di pranzo e i piatti che arrivano a tavola non lo convincono pienamente).
Tutto bene?
In Francia c’è un’associazione “contro le verdure decorative”. E non è una stupidaggine, perché si spreca cibo.
Lei è di origini libanesi, come una delle cucine più celebrate al mondo.
Forse la migliore: piena di colore, sapida, raffinata ma di casa, ha dentro l’eco dei Fenici, la cultura siriana e mediterranea; alcuni piatti di oggi venivano cucinati nella Roma antica.
Lei cucina?
Tantissimo: nella vita mi dedico ai fornelli, alla musica e al disegno; da quando ho sedici anni, se entro in un ristorante, la prima cosa che chiedo è di visitare le cucine: se uno chef si rifiuta vuol dire che ha qualcosa da nascondere.
Come va con la cucina italiana?
Ho Fabio Picchi (Del Cibreo di Firenze) che mi manda le istruzioni via sms, e a volte scattano delle sfide: cuciniamo in parallelo, e alla fine verifichiamo chi è stato più bravo.
È la sua valvola di sfogo.
Chi mi conosce scappa appena mi piazzo ai fornelli: in cucina divento orrendo, un despota, un vero stronzo.
Luca Barbarossa, al ristorante, manda indietro i piatti che non lo convincono.
Anche mia nonna, ma prima di protestare con il cameriere mangiava quasi tutto, lasciava giusto un paio di bocconi, poi alzava la mano e pretendeva di non pagare; io mi vergognavo, ma lei vinceva sempre.
Torniamo alla musica: cosa pensava quando assisteva alle performance dei ragazzi di XFactor?
Lì spesso ti trovi davanti cantanti che non hanno coscienza del proprio bagaglio tecnico, non sanno neanche qual è l’impegno necessario per migliorarsi: per anni devi studiare almeno quattro ore al giorno, tutti i giorni. Per tanti anni, ripeto.
Come all’università.
Sì, ma in quei ragazzi vedevo troppo spesso il desiderio di diventare una celebrità più che il piacere di scoprire la “provocazione della bellezza”. Solo con quest’ultima ci si sente pieni di vita e di emozioni, non con la fama, che spesso è intossicante.
Riccardo Cocciante sostiene: “La popolarità può alterare l’autenticità di una composizione”.
Assolutamente, e questo problema si presenta nella mia vita intima, quando mi siedo al pianoforte per comporre: lì la contaminazione da celebrità può alterare, mentre non bisogna mai creare per piacere al pubblico; è fondamentale entrare in una condizione di trance, esattamente come nei momenti migliori dei concerti.
In trance…
Sì, e lì ogni gesto ha un senso e un ritmo, uno balla con la propria anima e raggiungi il massimo d’impatto.
È un piacere?
Sì e no: è talmente un’altra realtà da estraniarti, è come se non accadesse per davvero; uno se ne rende conto solo alla fine, e con la scrittura avviene lo stesso, accade qualcosa di trascendentale.
Quando torna sulla terra?
Ti senti un supereroe, un drogato di dopamina, più tollerante e libero.
Associa talento a professione?
Per me è un job (lavoro), e da quando ho otto anni.
Cosa suonava?
Strauss, Mozart, Benjamin Britten e Schubert. Mi pagavano. Ed è stata una salvezza perché avevo smesso di andare a scuola.
Come mai niente scuola?
Per problemi con una maestra: non aveva capito la mia dislessia ed ero diventato il suo sfogo quotidiano, fino a quando mia madre ha detto basta, e mi ha portato a lezione di pianoforte. Quattro mesi dopo avevo già il mio primo ingaggio.
Le pesava?
Ero orgoglioso di guadagnare, anche se i soldi finivano tutti a mia madre.
Con gli altri bambini?
Vivevo una doppia realtà: quando ho ripreso a frequentare la scuola, la mattina venivo trattato da scemo, mentre il pomeriggio, mentre gli altri giocavano a calcio, lavoravo con gli adulti.
Sbalestrante?
No, fantastico, era solo musica, nessun vincolo di popolarità.
A pallone ha mai giocato?
Solo una volta e con mio padre: un disastro, si è avvelenato per la mia incapacità, e la partita si è tramutata in una lite lunga una settimana; ancora oggi non lo perdono per la sua aggressività.
Le passate generazioni di artisti erano celebri anche per l’utilizzo della droga. Le nuove sembra meno…
In realtà lo nascondono e basta: le droghe ci sono, solo che non rappresentano più una bandiera di libertà, e grazie a dio.
Ha tatuaggi?
Neanche uno. Nel quotidiano indosso quasi sempre una maglia bianca, o abiti molto semplici, ne ho bisogno; il palco è un’altra situazione.
Doppio binario.
Il vantaggio di questo lavoro è di aver trovato una chiave per crescere bene, ma ognuno di noi ha la necessità di un contrappunto, e il mio è stato la negatività associata a mio padre.
Dunque…
In alcuni casi ho vincolato le mie scelte all’idea di prendere le distanze dall’immagine che avevo di lui; per questo detestavo il suo cognome, lo volevo interrare.
Non ha preso neanche quello di sua madre.
Con lei il rapporto è sempre stato molto duro e tenero, quindi sono felice di chiamarmi Mika.
Il suo pensiero felice?
Ho un’ossessione pure per i teatri: colleziono i loro modellini; il mio sogno è possederne uno, magari con dentro un ristorante. (Riflette alcuni secondi) Aggiungo la Grecia.
In quale modo?
C’è un’isola che ora frequento spesso, un luogo celebrato come riserva di comunisti: la prima volta ci sono capitato per caso, a bordo di uno yacht battente bandiera turca; per loro il massimo della provocazione, quasi una perversione.
Comunisti, come?
Per reagire alla crisi il porto, l’ospedale e i servizi sono gestiti dalla comunità.
Insomma, arriva lì, e…
Neanche volevano farci attraccare, hanno iniziato a insultarci, sentivo un coro di malaka (stronzo), e l’ho trovato meraviglioso, tanto da restarci una settimana, con i turchi in sofferenza.
Il nome dell’isola?
Preferisco non dirlo, perché lì ho affittato una casa; ogni mattina quando mi alzavo trovavo uno del paese seduto in cucina che mi aspettava per il caffè; le loro storie, i loro segreti, mi hanno ispirato così tanto da tornare a scrivere.
Partecipava alla loro quotidianità?
Pure ai riti pagani; (ride, e ride) poi uno mi voleva uccidere.
Cioè?
Mi ha inseguito a lungo con un coltello in mano; per fortuna una signora mi ha nascosto nel salotto.
Come mai?
Questo pazzo, un po’ ubriaco, era convinto gli volessi rubare la fidanzata; ma non era vero, non è mai esistita questa opzione, è stata lei a fraintendere.
Non sapevano che è gay?
Ma non sanno neanche chi sono; ah, una sera, per un rito, mi hanno vestito come una capra, e dovevo ballare con addosso 42 chili di vestiti: a un certo punto sono corso via perché mi veniva da vomitare, e alcuni mi hanno ritrovato a terra.
Alla ragazza contesa, cosa ha detto?
Forse solo “grazie, ma al massimo ti offro una birra”.
Le capita spesso di incontrare donne seduttive?
Per fortuna no, mi imbarazzo.
Tempo fa ha dichiarato: “I social sono una merda”.
E la mia compagnia discografica si è sentita male; (sorride) forse oggi ne ho compreso l’importanza: sono importanti per comunicare con il pubblico e i media
.
Si sente adulto?
Ora sì, altrimenti a 36 anni dovrei finire in un ospedale psichiatrico.
Qual è il passaggio?
Quando ti rendi conto di poter restare da solo.
Tradotto.
Se sei in grado di sopravvivere a tutte le persone che ami, a tutte le certezze del tuo status sociale, e resti la stessa persona, allora sei adulto.
Il suo periodo attuale non è semplice.
Direi triste, ma la tristezza è come una droga: ha un effetto intossicante.
Si fugge dalla realtà.
La sfida nel diventare adulto è di non perdere lo spirito precedente e non indurirti. Forte sì, non duro.
Piange?
Poco, ma quando capita “sono cavoli”.
Ride?
Tantissimo.
Realmente?
Spesso.
Tra odio e indifferenza?
Chi odia sa anche amare, ma in questa realtà capitalista ci vogliono sedati, impauriti, polarizzati, così siamo più gestibili e manipolabili. Questa è pure la cultura delle serie televisive.
Che c’entrano?
Restiamo da soli per ore a guardare la tv, sembriamo lobotomizzati: all’interno piazzano protagonisti affascinanti e realizzati che bevono alcool; lì vedi la vera forza delle lobby.
Spesso l’hanno paragonata a Freddie Mercury.
Oggi meno, ma ci sono punti in comune: tutti e due veniamo dalla musica lirica, ed entrambi sul palco uniamo la virilità e la femminilità.
Ha mai analizzato il suo quoziente d’intelligenza?
In tutti i test sono sempre risultato un disastro.
Quali test?
Per dislessia, tanto che da ragazzo ho ottenuto il sostegno statale.
C’è un libro o un film nei quali si rivede?
Parte della mia adolescenza l’ho ritrovata in Chiamami col tuo nome di Guadagnino; poi per anni sono stato ossessionato dalla scrittura di Hunter Stockton Thompson, come per Paura e delirio a Las Vegas, e amo tantissimo Bertolt Brecht.
Rispetto alla sua carriera, Fedez ha rivelato: “Ho paura di sparire all’improvviso, per questo mi preparo”.
Io no: anche se diminuisce il successo commerciale, non spariscono le mie idee, le mie emozioni, la bellezza che cerco di provocare e anche i momenti brutti che ho vissuto e ai quali sono sopravvissuto. L’arte resta.