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 2019  ottobre 20 Domenica calendario

Il diritto al sesso dei disabili

“In quale posizione posso mettermi per fare l’amore senza farmi male?”, “come faccio a baciare un uomo e continuare a respirare?”. Queste sono alcune delle domande di una donna con tetraparesi spastica a cui Marco Mariano ha dato risposta, in teoria e in pratica. Perché Marco, 54 anni, piemontese, è uno dei 16 “love giver” tirocinanti d’Italia o, più tecnicamente, è uno dei pochissimi operatori italiani all’emotività, all’affettività e alla sessualità per persone con disabilità (Oeas). “Da anni io faccio l’operatore socio-sanitario e nel 2017 ho deciso di intraprendere questo percorso di formazione a Bologna. Ogni giorno imbocco e pratico l’igiene alle anziane in casa di riposo, in sostanza il mio lavoro è aiutare le persone a soddisfare i bisogni della “piramide di Maslow”, cioè quelli essenziali alla sopravvivenza. Ma perché dovrei escludere da questi bisogni il sesso per una donna disabile?”. Ma attenzione. “Se state cercando un gigolò o una prostituta non siamo noi”, sottolinea Marco. Che spiega: “Il nostro obiettivo è creare i presupposti affinché la persona con disabilità riesca a gestire in totale autonomia la sua sfera sessuale, emotiva e relazionale”.
Si fanno esercizi di respirazione, incontri di meditazione di coppia con il filtro dei vestiti, si prende in considerazione l’uso dei sex toys come strumenti per l’autoerotismo. E se occorre si usa anche una statuina del David di Michelangelo che può essere utile a far acquisire consapevolezza del piacere, che si può dare e ricevere, a una persona cieca e con una malattia neurologica. “Con questa donna che seguo da un po’ di tempo – racconta Marco – abbiamo elencato le parti del corpo maschile toccando il David, ma lei, oltre a non nominare per pudore gli organi sessuali, non ha neanche preso in considerazione la schiena e i piedi. Semplicemente perché lei non li sente”.
In Italia le regole di ingaggio dell’Oeas prevedono che non si debba creare nessuna dipendenza emotiva, non sono ammessi rapporti sessuali completi e, allo scoccare del settimo e ultimo incontro, si deve cancellare il numero di cellulare dell’operatore dalla rubrica della persona disabile, mentre negli altri Paesi europei e non solo esiste il sex worker che pratica l’assistenza sessuale. Da noi l’obiettivo dell’operatore è diverso. “Illove giver è un concetto che racchiude rispetto e educazione, in un Paese civile rappresenta la massima espressione del diritto alla salute e al benessere psicofisico e sessuale”, spiega Max Ulivieri, fondatore del comitato “Love Giver”, che porta avanti da anni la battaglia per il diritto delle persone con disabilità a vivere la sessualità come tutti gli altri. Ma in Italia questo diritto è ancora un tabù e il disegno di legge sull’introduzione della professione di “assistente sessuale” è al palo dal 2014. I disabili continuano così a essere visti come adulti asessuati o eterni bambini. “Bisogna fare una battaglia culturale. Mi hanno anche accusato di fare un’operazione di ghettizzazione, ma – dice Ulivieri – il mio sogno è che non ci sia bisogno dell’assistente sessuale. Una volta era necessario che qualcuno mi spingesse in carrozzina, poi la mia carrozzina è diventata elettrica e sono diventato autonomo. Se ci fosse una rivoluzione in Italia in cui qualsiasi persona, a prescindere dalla sua diversità anche fisica, non vivesse l’allontanamento dalle relazioni e dalla sessualità, non servirebbe l’assistente sessuale”. Alla sua associazione, che ha organizzato il primo corso per Oeas, sono arrivate oltre 4.600 richieste di assistenza, soprattutto da parte di genitori di figli affetti da autismo, a fronte però di appena 16 “diplomati” fino a oggi.
Caterina Di Loreto, 32 anni, abruzzese, di professione educatrice, sta seguendo due uomini di 30 e 21 anni con disturbi dello spettro autistico. “Sono sempre stata interessata all’educazione all’affettività, un aspetto che viene trascurato anche negli studi universitari. Il mio obiettivo invece è capire le dinamiche della sessualità”, commenta Caterina che non si definisce una “figure a chiamata” né ritiene l’Oeas l’unica soluzione per affrontare l’educazione all’affettività. Soprattutto con le persone con disabilità cognitive il nostro lavoro è ancora più delicato”. “Con loro – spiega Caterina – creo storie con personaggi che hanno una specifica gestualità per far capire come evitare pratiche di autolesionismo nella masturbazione e casi di parafilia, cioè le perversioni sessuali”. Spesso, poi, c’è da affrontare la situazione inversa. “Mi chiedono – prosegue Caterina – se lo fanno nella maniera giusta, senza procurarsi dolore, con il movimento adatto, ma magari si masturbano in luoghi pubblici non capendo che il gesto fa parte della sfera privata. E gli va spiegata la differenza”.
“Ricordo con ansia la sua prima erezione, era estremamente confuso, correva da una parte all’altra della casa con gli occhi spaventati senza capire cosa stesse succedendo e senza sapere cosa fare per affrontarlo. Il mio istinto è stato quello di spiegargli, fargli vedere come si fa. Ma poi cosa vuol dire, che molesto mio figlio? È compito mio spiegargli cosa fare?”, racconta Marina Viola, la mamma di un ragazzo autistico di 23 anni. “Alcuni genitori – racconta – vorrebbero che i figli non scoprissero mai la sessualità. Ma, prima o poi, la botta arriva. E non sappiamo a chi rivolgerci. Gli stessi psicologi o terapisti non sono specializzati”. “C’è grande ignoranza in materia. Fino a qualche anno fa era persino negata la sessualità negli autistici”, riconosce Luigi Mazzone, neuropsichiatra infantile dell’Università di Tor Vergata. “Il problema poi non è sostenere o meno il sex worker o la figura dell’Oeas, ma se inserire il sesso nel piano di vita. Esistono persone diverse per bisogni diversi: in determinati soggetti con autismo la richiesta di sesso può diventare compulsiva o scompensarlo. È necessario quindi compiere un percorso emotivo-affettivo”.
Un limite varcabile anche per le donne autistiche. “In questo caso bisogna lavorare sulla “prevenzione dell’abuso. È fondamentale insegnare a distinguere un certo tipo di carezza o di abbraccio”, denuncia. In base al report “Vera” della Fish, il 32% delle donne con disabilità interpellate ha infatti subito una forma di violenza.