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 2019  ottobre 20 Domenica calendario

La stanza di Stefano Cucchi

In piedi nella stanza del figlio, Rita sfiora, accarezzandola con il dorso della mano, l’immagine di Stefano sulla credenza. Muove un passo oltre la vetrinetta con il vecchio stereo Hitachi e la mensola dei libri: I fiori del male di Baudelaire, le Poesie di Verlaine, Romeo e Giulietta di Shakespeare. Si avvicina al divano in trapunta su cui, in buon ordine, sono i peluche della sua adolescenza. Un orsacchiotto, un cuscino e un bruco biancoazzurro "Lazio ti amo", in ricordo di una conversione calcistica in memoria e onore del nonno, che non poteva proprio immaginarlo giallorosso. Indica una sacca da palestra in un angolo in terra. «Questo è il borsone di Stefano. Quella sera l’ha lasciato qui e qui è rimasto. Io lo tiro su, pulisco, e lo rimetto dove l’ha lasciato lui». Appesi al chiodo, per sempre, i suoi guantoni bianchi da boxe. E quelli rossi del suo amico Emanuele Della Rosa, campione dei superwelter . Il tempo, nella stanza del figlio, al sesto piano di via Ciro da Urbino 55, borgata di Tor Pignattara, si è fermato. E, martedì 22, saranno dieci anni: ottobre 2009, ottobre 2019. Rita dice che è stato ed è. «Sapere che questa è sempre la sua camera. Che posso venire qui a parlargli, cosa che faccio spesso. Che dunque non è successo davvero. Il tempo per elaborare il lutto, per dire definitivamente a me stessa che Stefano non c’è più arriverà. Ma solo quando avrà avuto giustizia. Non prima».

Sette mesi fa, a 70 anni, Rita ha scoperto di essersi ammalata. Dolori lancinanti alla schiena. «Pensavo fosse la sciatica che mi porto dietro da anni. E infatti continuavo a incollarmi il carrello e le buste della spesa. Figurarsi, ho fatto per quarant’anni la maestra all’asilo, ho cresciuto due figli. Poi Ilaria ha detto: "Mamma, ora ti controlli". E insomma, altro che sciatica. Vabbè».
Vabbè. «Sì. Quando perdi un figlio, muori con lui. E quindi, ecco perché dico "vabbè". Perché ogni mattina che mi sveglio ringrazio il Padre eterno che mi ha dato un altro giorno. E soprattutto penso che quello che è successo a me non è nulla rispetto a quello che hanno fatto a Stefano. Che sarà mai portare il busto, fare la chemio, i raggi? Mi hanno detto che mi opereranno tra un po’ per rimuovere la massa del tumore originario e che le metastasi sembra si siano fermate. Speriamo bene. E comunque, se anche dovesse arrivare quel giorno, so che andrò da Stefano e ci rivedremo». Rita porta la malattia con un foulard di seta turchese che le avvolge il capo e un trucco che le illumina il volto. «Dei capelli sai che me ne importa. All’età mia, poi», dice con un sorriso indicando il marito Giovanni che è tornato dalla farmacia. «Pensa, lui invece ha smesso di vederci da un occhio. Un’emorragia che ha danneggiato la retina. Ci siamo scelti proprio bene. Lo zoppo che aiuta lo sciancato». I medici hanno detto a Rita che il male le covava dentro «da almeno dieci anni». Ed è difficile non pensare a una coincidenza. «Ma no. Non lo voglio pensare. Diciamo che non lo voglio sapere».
«Nonnaaa… Nonnaaa…». Dal tinello di casa arriva la voce di Giulia, la secondogenita di Ilaria. Anche la mattina del 22 ottobre 2009 era in casa con lei, quando un carabiniere bussò alla porta chiedendole di mettere quella bimba di un anno nel box e sedersi in cucina perché doveva consegnarle il foglio che le annunciava la morte di Stefano. Ora Giulia ha undici anni. «Nonna, ho quasi finito i compiti di grammatica». «Lei non lo ricorda Stefano. Non può ricordarlo. Ma sa tutto. E chiede sempre. Quando vede sua madre Ilaria in tv la chiama "mamma Cucchi". È ancora piccola, ma ha il carattere di Stefano. Sorride sempre, è allegra, generosa, educata. Chi invece parla poco è il fratello, Valerio, che adesso ha quasi 18 anni. È un modo per difendersi. E lo capisco. Erano legatissimi lui e lo zio. Stefano lo andava spesso a prendere a scuola, ci giocava. Giulia mi dice spesso se può stare nella stanza di zio Stefano. Ogni volta che li guardo, penso che Stefano sia dentro di loro».
Dice Rita che non ha nulla da rimproverarsi. Né per il dopo — «Rifarei esattamente la stessa battaglia che ho fatto in questi dieci anni» — né per il prima. «Ho sentito tante volte dire che la colpa era nostra se Stefano era morto. Perché un tossico che fine deve fare, no? Ma abbiamo fatto tutto quello che potevamo. Stefano è stato quattro anni in comunità. E io e suo padre Giovanni con lui. Perché in quei quattro anni abbiamo fatto terapia di gruppo e individuale con psicologi, assistenti sociali. Abbiamo fatto tutto, tutto. E Stefano ne era uscito. Aveva ricominciato a lavorare, aveva una casa, si era fatto i biglietti da visita. Aveva ricominciato a vivere…». La voce di Rita si spezza. Lo sguardo si allaga di lacrime. «In verità, una cosa me la rimprovero. Quella sera che i carabinieri arrivarono qui con lui per la perquisizione dopo averlo arrestato, non dovevo farlo portare via. Non dovevo. È morto per venti grammi di hashish… ». È l’ultima immagine che ha di Stefano. Quella che continua a perseguitarla. Persino più di quella dello scempio del corpo in obitorio. «Ricordo che, dopo la perquisizione, accostarono la porta di questa stanza e io, qui dal corridoio, guardando oltre lo stipite, vidi che gli giravano le braccia dietro la schiena. Mentre lo portavano via mi disse: "Stai tranquilla, ma’. È tutto a posto. Non succederà niente"». Dal giorno in cui, in udienza al processo, il carabiniere Francesco Tedesco ha raccontato la violenza del pestaggio sul corpo di Stefano, quell’immagine si accompagna a una sensazione. «Solo una madre può provare nel proprio corpo il dolore inflitto a un figlio. E quando parlo di dolore, parlo di dolore fisico. Ascoltando Tedesco ho sentito la mia nuca battere sul pavimento. La mia faccia esplodere colpita dai calci. La mia schiena spezzarsi. Il suo stesso dolore. Che è poi il motivo per cui, quando tutto cominciò, non volevo in nessun modo che fossero mostrate le foto di Stefano all’obitorio. Allora pensavo che fosse un ultimo inutile oltraggio mostrare il mio Stefano come mai lui avrebbe voluto. Lui che si cambiava tre volte al giorno. Che si faceva la doccia mattina e sera. Avevo torto. Quelle foto hanno cambiato il corso degli eventi. Ma, appunto, era ed è una questione di dolore. È una madre e il corpo di suo figlio. Quello che ha portato in grembo. Non credo si possa spiegare solo con le parole».
È vero, forse non si può spiegare. Anche perché, se c’è una condanna peggiore di sopravvivere a un figlio, è quella di ascoltare in quali tormenti e in quale abisso di umiliazione lo si è perso. «Mi ha aiutato la fede in Dio. Mi ha aiutato la comunità di Santa Giulia, la nostra parrocchia. Mi hanno aiutato le migliaia di italiani che non hanno smesso di scriverci, di non farci sentire mai soli. Anche per questo la battaglia di verità e giustizia per Stefano è anche e soprattutto per loro. Perché non debba accadere ancora. A qualcun altro. Solo così la morte di Stefano avrà un senso. Se un senso può avere il morire ragazzi».
Dice ora Rita che non ha mai perso la fiducia nello Stato. Anche quando la montagna da scalare le è apparsa insormontabile. «Dopo il verdetto di assoluzione in primo grado, Ilaria mi prese da una parte e mi disse: "Mamma, abbiamo vinto". Non capivo. "Come abbiamo vinto? Ma se non ci sono responsabili?". Aveva ragione. Avevamo vinto perché la giustizia doveva ancora trovarli. E lo ha fatto. Grazie a quel santo del procuratore di Roma Giuseppe Pignatone. E a quel pm, Giovanni Musarò, santo come lui. Si, non esagero. Santi. Come devo chiamarli?». Neanche nei confronti dell’Arma riesce a provare risentimento. Neanche di fronte allo spettacolo di ufficiali, generali di brigata e di corpo d’armata visti sfilare muti o farfuglianti in aula per giustificare un depistaggio della verità durato anche questo dieci anni. «Dico anche a loro quello che ho detto dall’inizio. Chi sa parli. Perché non è giusto che pochi debbano infangare il lavoro e il sacrificio di migliaia di uomini in divisa».
È sera. Bussano alla porta. Ilaria è tornata a prendere Giulia. Rita la bacia e la guarda come fosse ancora una ragazzina. «Vuoi qualcosa per cena da portarvi a casa? Guarda che ho fatto il sugo che piace a tutte e due». Poi, rientra nella stanza del figlio per sistemare il cestino di fiori di plastica che fa da centrino sul tavolo. Accosta la porta del bagno. Con la mano sulla maniglia, chiede come andrà a finire il 14 novembre, quando la Corte di assise, di fronte alla quale sono imputati di omicidio i carabinieri che le hanno portato via Stefano, pronuncerà la sua sentenza. Sulla porta del bagno è un ritaglio ingiallito di un giornale americano che Stefano aveva attaccato come una reliquia. L’annuncio dell’incontro tra Mike Tyson e Trevor Berbick che, il 22 novembre 1986, avrebbe incoronato il primo, a soli 20 anni, campione del mondo dei pesi massimi. The judgment day, il Giorno del giudizio, strilla il titolo. Rita lo chiede ancora una volta: «Dai, dimmelo sinceramente: come andrà a finire secondo te il giudizio?». E sorride.