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 2019  ottobre 20 Domenica calendario

Mezzo secolo con Manfred Eicher

Visti i risultati ottenuti in cinquant’anni di carriera ci sentiamo abbastanza sicuri nell’affermare che non è mai sceso a compromessi. Segue tutto, fino al dettaglio grafico delle copertine, firmate negli anni da fotografi come Christoph Eggen, Jim Bengston, Roberto Masotti. Cercando l’equivalente del punctum fotografico di Roland Barthes (il particolare, in apparenza secondario, ma che fa la differenza, che colpisce, che punge) dentro un’incisione discografica. Uno sguardo storto di Manfred Eicher (Lindau, Germania, 9 luglio 1943), di mestiere produttore discografico, ma musicista di formazione, può raddrizzare immediatamente le cose. O cancellare un lavoro di mesi per rifarlo da capo. Oppure eliminarlo e voltare pagina. Nessun problema: quello a cui si anela è sempre la (impossibile) perfezione. 
Anche musicisti straordinari, ma che coltivano il culto di sé come Keith Jarrett – che già ai tempi del Köln Concert (inciso il 24 gennaio 1975) chiese di far tacere le campane del Duomo – gli danno ascolto, riconoscendogli autorevolezza e carisma. Austero, quasi inavvicinabile, severo prima di tutti con sé stesso, Eicher è riuscito in tante cose, ma in una ha un primato assoluto. Ha saputo trasformare le musiche eterogenee che incide per la sua etichetta – la tedesca Ecm (Edition of Contemporary Music, che contiene però anche due delle iniziali del suo nome) – in un genere musicale. L’Ecm – che quest’anno festeggia i suoi 50 anni con una serie di appuntamenti che abbiamo riassunto nella scheda qui a fianco – è uno stile, un modo di intendere la musica – se di Franz Schubert o di Tore Brunborg, poco importa – di renderla immediatamente riconoscibile. 
Che musica è? L’Ecm è l’assolo di Charlie Haden in Silence, è un mugolio di Keith Jarrett, la campana di Arvo Pärt, una nota stridente della tromba di Tomasz Stanko, l’etnia immaginaria evocata dal brasiliano Egberto Gismonti, il sassofono di Jan Garbarek che fa da controcanto alle voci dell’Hilliard Ensemble, è la viola di Kim Kashkashian che commenta le immagini di Angelopoulos, è la voce di Bruno Ganz che legge, sgranandole con narcotica lentezza, le poesie di Friedrich Hölderlin e di Giorgos Seferis. Tecniche di registrazione, pause, silenzi, ritmi volatili, sapori sonori che ritornano a distanza di anni all’interno delle incisioni quasi a non voler far perdere il gusto del lievito madre. Manfred Eicher spiega a «la Lettura» che «a volte in studio di incisione ci troviamo di fronte a un’opera di iniziazione. Dobbiamo cercare di dare un’espressione a qualcosa che non necessariamente si trova dentro il materiale musicale. In sala c’è un’interazione fra il musicista, il compositore e me: si tratta di cogliere le diverse sensibilità, traendo il meglio dalla situazione. Cerco di riportare all’ascoltatore in senso filosofico esattamente ciò che avviene in sala al momento della registrazione». 

Il 24 novembre 1969 il pianista Mal Waldron – che da giovane si era fatto le ossa come accompagnatore di Billie Holiday – entra con il suo trio nella sala di registrazione del Tonstudio Bauer di Ludwigsburg in Germania per registrare il primo disco in assoluto prodotto dall’Ecm. Il titolo ha la potenza di uno slogan: Free at Last (Liberi finalmente). Ma da cosa? Il 1969 è l’anno dello sbarco sulla luna, del festival di Woodstock, di Yellow Submarine e di Abbey Road dei Beatles, due anni prima, con la morte di Coltrane, si era affievolito il fuoco del free jazz. Eicher cercò di integrare la cultura europea con la musica improvvisata, che proveniva dalla scuola americana: all’inizio l’Ecm era soprattutto una risposta europea al jazz americano. 
«I dischi che hanno cambiato il mio modo di concepire il jazz sono stati – racconta Eicher — Kind of Blue di Miles Davis, Explorations e Sunday at Village Vanguard di Bill Evans, Change of the Century di Ornette Coleman, Footloose di Paul Bley. Ricordo ancora oggi il trio Bill Evans, Scott La Faro e Paul Motian al Village Vanguard. Indimenticabile». In quei primi anni l’Ecm coltivava un’idea cameristica del jazz, in solo, duo, trio. Legata a una spericolatezza che derivava da una progressiva presa di distanza dalle classificazioni del territorio musicale, diviso in caselle rigide, contrapposte. Erano registrazioni con formazioni ridotte all’osso fatte forse per risparmiare, ma sta di fatto che quelle iniziali di Chick Corea, Paul Bley, Don Cherry, Gary Peacock, Gary Burton, Ralph Towner, Dave Holland e altri hanno aperto una strada al nuovo jazz cameristico. Successivamente intorno agli anni Ottanta, Ecm si è costruita un’identità attraverso musica costruita sulle ceneri del free jazz con uno sguardo implacabile sulle tradizioni musicali di altri Paesi, extraeuropei, dando vita a un catalogo pieno di riferimenti al folk reinventato (africano, norvegese, pakistano...) e coniugato con l’improvvisazione. 
Poi, quasi contemporaneamente, s’è manifestato anche un forte interesse per la musica scritta (la formazione di Eicher, in fondo). «Mi piaceva – dice – l’idea che il pianista jazz Bill Evans usasse le armonie di compositori come Chopin e Debussy per inserirle in una dimensione nuova e diversa». Nel 1983, con la creazione della Ecm New Series, Eicher ha spiazzato il mercato della musica colta con l’incisione, l’anno successivo, di Tabula Rasa di Arvo Pärt. Un disco cult, al quale parteciparono anche Gidon Kremer e Keith Jarrett eche ha aperto le strade ai compositori dell’Est. «Una sera – racconta Eicher – in macchina da Stoccarda a Zurigo ho acceso la radio. La musica mi colpì al punto che lasciai l’autostrada per poter ascoltare quelle meraviglie. Era musica di Arvo Pärt. Lo raggiunsi tramite un contatto che avevo a Vienna e gli chiesi di lavorare insieme». 

Dopo quella iniziale di Pärt e le sue successive, arrivarono le incisioni delle musiche di Giya Kancheli (appena scomparso), di Alfred Schnittke, Valentin Silvestrov, György Kurtág, Alexander Knaifel, Valentin Silvestrov, Sofia Gubaidulina. La grande sensibilità di Eicher è consistita qui nel saper porgere l’orecchio a queste voci, vicine e lontane nel tempo, che hanno espresso con la loro musica, e in aree geografiche periferiche, sintomi di disagio. Di silenzi infiniti. «Il mio credo – conclude Eicher – si può concentrare in queste parole: austerità, limpidezza, essenzialità e intensità propria del silenzio. In questo senso mi sento vicino a Godard, Tarkovskij, Antonioni, Bergman. Un artista che ammiro è Alberto Giacometti, che sviluppò un linguaggio tendente all’essenza. Anche la luce è sempre stata importante per me, la luce del suono, il suono della luce. Ricordo da bambino un pianoforte in un albergo di Copenaghen. Improvvisamente fu illuminato da un raggio di luce, che sembrava lo stesse suonando».