La Lettura, 20 ottobre 2019
Le parole inventate da Dante
La capacità inventiva di Dante non si esprime soltanto nelle visioni e nelle situazioni rappresentate dentro il poema ma anche (e forse soprattutto) nella creatività verbale. Dante è «il padre della lingua italiana» (come si ripete a volte un po’ meccanicamente) perché circa un terzo delle parole della lingua che parliamo risalgono – direttamente o indirettamente – alla Divina commedia. Ovvio che molte delle parole che usava l’Alighieri hanno assunto oggi significati completamente (o quasi completamente) diversi dai suoi.
In un famoso saggio, Gianfranco Contini dimostrò quanto sia facile sbagliarsi nell’interpretazione di parole dantesche che ci appaiono sulle prime comprensibilissime. Il filologo prese uno dei più celebri sonetti, Tanto gentile e tanto onesta pare, e cominciò ad analizzarne una a una le parole. Così, quello che «passa per il tipo di componimento linguisticamente limpido, che non richiede spiegazioni», e che potrebbe «essere stato scritto ieri», si trasforma sotto i nostri occhi in un organismo pieno di tranelli, di sottigliezze e di misteri. Gentile non è gentile, cioè garbata nei modi, ma nobile (d’animo), un aggettivo tecnico del linguaggio cortese; onesta non è onesta in senso morale ma decorosa esteriormente; e labbia, che sembrerebbe sinonimo di volto o faccia, è invece fisionomia. Ma è il verbo, pare, la parola-chiave che riserva le migliori sorprese: non è banalmente un sembra o un appare ma indica il manifestarsi in tutta evidenza. Donna è la signora (del cuore) e persino cosa («e par che sia una cosa venuta / da cielo in terra a miracol mostrare») non può essere la nostra cosa (ciò che è al di sotto del livello della persona). Tutt’altro che «donna-oggetto» come la si trova spesso in letteratura (in tale accezione Contini cita Balzac: «Ne aveva fatto la sua cosa»), ma una creatura che ha facoltà di produrre sensazioni e impressioni (addirittura un «miracol»). E guai a tradurre spirito («un spirito soave pien d’amore») con spirito: anche questo è un termine tecnico della filosofia, che indica un’attività vitale, cioè qualcosa che somiglia a un’emozione. E così via. Tutta questa attenta analisi semantica non è lo sfizio di un filologo rompiscatole ma, attraverso l’accanimento sul vero significato delle parole nel tempo, è la ricerca di una concezione dell’amore e dunque di una visione del mondo diversa dalla nostra.
Se le parole resistono, capita che se ne perda la gamma di significati. Per esempio, i cattivi con cui Dante ebbe a che fare, nella sua vita di poeta e di esule, non erano solo i nostri «malvagi», ma erano anche di due tipi che oggi ci sfuggono: da una parte etimologicamente i captivi dei latini (prigionieri degli altri ma talvolta anche di sé), dall’altra i «vili», i pusillanimi incapaci di grandi imprese, altro aggettivo tecnico-filosofico. Per esempio, nel Convivio vengono chiamati «abominevoli cattivi d’Italia» quelli che disprezzano la propria lingua ed esaltano gli idiomi stranieri. Un tipo di abominevole «cattività» che si perpetua fino ai nostri anni, dove se qualcuno accusa lo snobismo tutto italiota degli anglofili apriti cielo...
Anche cielo, una delle parole più ricorrenti nella Divina commedia, ha per Dante un’accezione che non può coincidere con la nostra: secondo il sistema aristotelico-tolemaico che dominava nel Medioevo di Dante, il cosmo aveva al centro la Terra che, parzialmente ricoperta dalle acque, era a sua volta circondata dalla sfera dell’aria e quest’ultima dalla sfera del fuoco. I quattro elementi, acqua terra aria fuoco, formavano il mondo sublunare retto dalla contingenza e cioè dalla corruttibilità tipica delle cose materiali: mentre le cose celesti sono incorruttibili ed eterne. Con il cielo della Luna, che sovrastava la sfera del fuoco, cominciavano i nove cieli (quelli incorruttibili ed eterni), sfere cave disposte gerarchicamente e concentriche rispetto al centro della Terra. C’è poi l’Empireo che avvolge tutto e che è la sede propria di Dio: «Ciel ch’è pura luce:/ luce intellettual, piena d’amore», lo definisce Beatrice (e intellettual non c’entra niente con l’intellettuale organico, cortigiano, dissidente, collettivo o radical chic come lo intendiamo oggi...). Rivolgendo gli occhi alle stelle, il poeta immaginava un altro cielo rispetto a quello su cui possiamo fantasticare noi. Ma se «occhi» è la parola più usata nella Commedia (212 volte) e le forme verbali da «vedere» («vidi» 166, «veder» 105) sono quelle più ricorrenti, ha ragione Anna Maria Chiavacci Leonardi quando scrive che «per un uomo quale fu Dante, appassionato scrutatore di tutto il reale, che costituisce l’oggetto della sua poesia, il vedere è l’atto più importante...».
In questa chiave il poema si propone come un «racconto di cose viste», una sorta di reportage dal mondo ultraterreno. Ed è straordinaria la varietà di occhi che il «cronista» Dante vede con i suoi stessi occhi, a volte «diritti» a volte «vergognosi e bassi», viaggiando nell’oltretomba: «occhi di bragia» (rossi d’ira) sono quelli di Caronte, «occhi tardi e gravi» sono quelli che incontra nel limbo, «grifagni» quelli di Cesare, «vermigli» quelli di Cerbero, prima «diritti» e poi «biechi» quelli di Ciacco, «putti» sono gli occhi dell’invidia-meretrice, altri sono «vivi», «confusi», «in giù raccolti», «casti», «dolenti», «sciolti», «fitti», «lieti», «belli», «onesti», «rilucenti», «santi», «fissi e attenti», «spietati», «ridenti» come quelli della Silvia leopardiana. E gli occhi di Beatrice sono, oltre che «lucenti», «pieni/di faville d’amor così divini» che il poeta non può che soccombere e abbassare i suoi («e quasi mi perdei con li occhi chini»).
Tutti questi occhi, oltre che guardare, «adocchiano», cioè osservano con insistenza, fissano, occhieggiano. Adocchiare è un verbo che piace a Dante, il quale ama da pazzi i «parasinteti» cioè quelle forme nuove (soprattutto verbali) che nascono aggiungendo prefissi e suffissi a parole vecchie. Prende «urbe» e crea inurbare, prende «mille» e crea inmillare (moltiplicare), prende «cane» e forma accanirsi, prende «sempre» e forma insemprare (eternare), prende «futuro» e inventa infuturare, prende «dominus» e s’indonna (si impadronisce), prende «forse» e inforsa (rende dubbio), prende «Paradiso» e s’imparadisa, prende «Dio» e s’india a tal punto da ritenersi onnipotente nel creare il suo mondo verbale.