Con un nome così, verrebbe voglia di fargli l’inchino. Ma Giuseppe Conte si è sentito come preso in giro dal destino. E perciò mentre gli chiedo della sua reazione all’omonimia con il presidente del Consiglio, vedo la sua faccia contrarsi: «L’ho vissuta subito come un incubo. Poi a tutto ci si abitua. Avevo una voce sulla Treccani, una sulla Universale Garzanti, una sulla Enciclopedia Larousse quando l’avvocato Giuseppe Conte non era neppure su Wikipedia». Quella nessuno te la toglie. «Vero, ma quando in Mondadori ho avanzato l’idea di firmare il libro modificando il mio nome, mi hanno dissuaso dicendomi che i premier passano e la mia opera resterà. Sono stati carini, e io ho detto: speriamo. Ma con il suo camaleontismo, la sua duttilità docile, la sua sfortuna sfacciata il mio omonimo altro che passare, potrebbe anche in un lontano futuro fare il premier in un’Italia dominata dai cinesi».
A proposito di nomi, ora ti firmi Yusuf Giuseppe Conte. Sei diventato musulmano?
«Non mi sono convertito, ma è importante il dialogo con l’Islam. In Canti d’Oriente e d’Occidente ho scritto una sezione con lo pseudonimo di Yusuf Abdel Nur, che in arabo vuol dire Giuseppe Servitore della Luce. Amo il sufismo, la poesia di Hafiz, Rumi, Attar, il versante mistico dell’Islam. La sua parte di bellezza, di amore e di tolleranza. Detesto e condanno l’Islam violento. Mi chiedevi della conversione».
Sì.
«Ebbene sono stato cattolico da ragazzo. Ma era una religione impostami, perciò l’ho abbandonata per convertirmi al mito».
Ci si converte al mito?
«Per me è stato così. Sentivo che tutto quello che avevo appreso, la cultura di cui ero imbevuto, si stava lentamente inaridendo. La gabbia che il ‘900 aveva costruito mi rendeva prigioniero di valori che non condividevo. La conversione al mito significava tornare all’origine delle cose, provando a rispondere al loro perché più che al come».
I perché restano spesso senza risposta.
«È vero, ma l’importanza risiede nella domanda. La scienza si chiede come sia possibile che una cosa accada, e nel farlo trascura che c’è un fondamento su cui poggia».
Non c’è motivo che la scienza se ne occupi.
«Ma qualcuno dovrà pur farlo, consapevoli che con il mistero dell’origine puoi convivere in modo fertile. Ho cominciato a pasticciare versi e traduzioni intorno ai 14 anni. Sono andato avanti con entusiasmo fino a 26 anni. Dal 1972 al 1979 non ho scritto più niente. È stata la scoperta del mito a darmi la forza di tornare a creare».
Cosa è scattato dentro di te?
«Semplicemente ho ripreso a scrivere poesia e poi romanzi sotto l’effetto di una crisi profondissima di identità personale e spinto dal desiderio di rivolta contro un linguaggio spogliato di ogni energia della natura, dell’eros, del sacro. Era il linguaggio del mondo contemporaneo contro il quale mi ribellavo. Questa idea di resistenza spirituale non mi ha più abbandonato».
Ti ritieni un uomo inattuale?
«Lo sono perché ossessionato dal mistero delle cose e dalla ricerca di una verità. Sono estraneo all’idolatria di massa, me ne fotto delle mode e nessuno potrà impedirmi di provare raccapriccio davanti alle influencer milionarie».
Sono il nuovo corso della democrazia di massa.
«Ho un’idea forte della democrazia ma non sopporto il chiacchiericcio insensato e a volte abietto della politica attuale. Provo orrore all’idea che una vestale del brand sia in grado di creare un mondo di seguaci fanatici e idolatri».
In fondo anche qui sembra di stare in una bolla mitologica.
«Ma è appunto una bolla, qualcosa di sospeso: senza archetipi, senza legami con la tradizione. È soltanto immagine invasiva e disturbante».
Sei sempre stato così?
«Così come?».
Voglio dire da bambino com’eri?
«Ti dico intanto dove sono nato: a Imperia, più precisamente a Porto Maurizio, la parte a ponente, arroccata e genovese, della città. La mia infanzia è trascorsa in una grande casa dalle sale piene di affreschi mitologici, ormai decaduta e buia e in una via in salita tra palazzi alti, botteghe, laboratori di artigiani in cui convivevano borghesi ricchi e miseri emarginati. Ero molto amato, avevo tantissimi amici e nello stesso tempo avvertivo in me una folla di angosce e di malinconie».
Che cosa sentivi che non andava?
«La paura di perdere tutto quello che mi sembrava fosse un’eredità naturale concessami da qualche dio. E non da mio padre».
Tuo padre chi era?
«Francesco fu un ufficiale siciliano che capitò in Liguria durante la seconda guerra mondiale. Poi fu direttore a Sanremo di quello che allora si chiamava Ufficio del Registro. Era un uomo autoritario e orgoglioso ma sapeva essere anche affettuoso. Segnò molto la mia immaginazione infantile».
Poi sei cresciuto.
«Liceo in provincia e nel 1964 mi iscrissi alla Statale di Milano a Lettere e Filosofia. Fu un salto nel buio. Mi sottoposi a un necessario corso accelerato di modernizzazione. In questo fu utilissimo Gillo Dorfles: cosmopolita, snob, attento a tutte le avanguardie e alle novità in ogni campo. Grazie a lui immagazzinai buona parte di quello, Neoavanguardia compresa, contro cui mi sarei presto ribellato. Quando si accorse che le mie predilezioni erano per la letteratura, mi mandò con una lettera di presentazione da Luciano Anceschi. Da lì nacque il mio primo libro La metafora barocca del 1972».
A parte scrivere cos’altro hai fatto nella vita?
«Per qualche anno ho insegnato. Su invito di Mario Spagnol, editor della Longanesi, ho diretto una collana di poesia. E poi non ho fatto altro che leggere, studiare, viaggiare, amare e scrivere. Sono le uniche cose che mi piacciono davvero».
Il tuo nuovo romanzo “I senza cuore”, è una storia di avventure ambientata intorno al 1100, con Genova protagonista. Cosa pensi del suo attuale declino?
«Per me resta una città segreta, ripiegata su di sé e a tratti sordida. Bellissima nel suo decadere, ma che nel Medioevo armava più navi di tutta l’Inghilterra – alla cui bandiera prestò la croce di San Giorgio – fino a diventare una delle grandi capitali economiche del mondo intero. In fondo, le città sono gli organismi più esposti al deterioramento».
Perché secondo te?
«Certo non è un semplice problema di manutenzione. Credo riguardi la loro spiritualità, se viene meno deperisce l’intero organismo».
Sei passato da “L’Oceano e il Ragazzo” a questo romanzo molto di genere, con la presenza di un serial killer. Non pensi che i tuoi lettori possano rimanere delusi?
«Io mi sentirei deluso e penserei di deludere i miei lettori di poesia se scrivessi romanzi intimistici e minimalisti, storie familiari e piagnucolose che oggi vanno per la maggiore. O magari raffinate sequenze di pagine con cui già il grande Palazzeschi diceva che ci si sarebbe pulito il culo. Ne I senza cuore la poesia rientra per via di un andamento epico, mitico, drammatico, in cui si intrecciano tra loro i destini dei personaggi della galea genovese con la società del tempo».
C’è un’ampia commistione di generi.
«Non mi spaventa, anzi la trovo necessaria per imbastire la trama. Il romanzo nasce “di genere”, picaresco, d’avventura, fantastico, epistolare, storico, gotico, poliziesco. Potrei continuare».
Nel tuo sembra riecheggiare “Il nome della rosa”.
«È un libro che lessi con una certa ammirazione. Ma i miei riferimenti sono estranei a Eco, si avvalgono di autori che affrontano il meraviglioso, il grottesco, il metafisico, come Edgard Allan Poe di Gordon Pym, Melville di Moby Dick, Stevenson de L’isola del tesoro e il gigantesco Victor Hugo».
Non hai timore di essere frainteso?
«Lo sono stato spesso e ne ho anche tanto sofferto».
Sei fragile?
«Come tutti, quando si è colpiti in ciò che ci è veramente caro».
Pietro Citati è stato un tuo lettore entusiasta.
«Gli devo molto per l’appoggio decisivo alla mia poesia e per le mie prime conoscenze della cultura orientale».
Stroncò un tuo romanzo.
«Mi sorprese e lo ritenni un “fuoco amico”. Disse di me: è un grade poeta ma se scrive dei romanzi non leggeteli!».
Tu come l’hai presa?
«Malissimo, ma poi ritengo che ognuno è libero di esprimere giudizi».
Fu molto favorevole quello di Italo Calvino.
«La sua recensione a L’Oceano e il Ragazzo mi ha aperto le porte per le traduzioni in Francia e in America. Gli telefonai timidamente per ringraziarlo e mi invitò ad andare a trovarlo. Nei due anni successivi ci incontrammo varie volte sia a Castiglione della Pescaia, dove trascorreva le vacanze, sia a Roma nell’appartamento dietro il Pantheon. Fu lì che mi diede da leggere il manoscritto dei primi due capitoli delle Lezioni americane, quelle dove compaiono le figure mitiche di Ermes e Vulcano».
Per un uomo chiuso e riservato come era lui fu un grande gesto.
«Mi riempì di gioia. Sapeva sorprendermi. Visto da solo era un uomo spiritoso, ma bastava essere in tre o quattro perché diventasse silenzioso».
Altri incontri decisivi?
«Mario Soldati che ho frequentato a lungo e fraternamente, divertendomi come non mai e poi Adonis, il maggior poeta arabo vivente, amico e maestro. Bonnefoy introdusse una mia lezione al College de France. Soldati, ricordo, mi chiamò una mattina per dirmi che aveva letto una cosa mia che gli era piaciuta. Era un uomo fantastico: spiritoso, fine, imprevedibile. L’ho visto a 85 anni far finta di molestare una ragazza e divertirsi enormemente. Come scrittore non era così convinto dei propri mezzi. Avvertiva un senso di inferiorità nei riguardi di Alberto Moravia. Una delle cose che mi diceva era: non devi fare come me, devi fare come Borges».
Com’era Borges?
«Intoccabile e inavvicinabile. Mario intendeva dire che non devi mai scordarti di essere uno scrittore e diceva di sé che troppo spesso lo aveva dimenticato. La verità è che fu un uomo modernissimo, prensile e curioso di tutto. Sapeva perfettamente, nonostante l’autocritica, che la vita di uno scrittore non si conserva ma si dissipa».
Che differenza c’è tra la lingua poetica e quella narrata?
«La prima vive di ritmo contratto e ha un andamento verticale o al più elicoidale. La lingua del romanzo procede a blocchi orizzontali. Il ritmo è nei personaggi, nella trama, nei dialoghi. Più che ostacolarsi per me si completano. E sempre a proposito del romanzo lessi una inattesa definizione di Umberto Eco. Il romanzo, scrisse, è una forma di educazione al fato. La trovo molto condivisibile, in qualche modo poetica».
Hai conosciuto poeti interessanti?
«Adonis, come ti dicevo, che vedo tutte le volte che vado a Parigi. E poi mi mancano le telefonate mattutine di Valentino Zeichen. Alle otto del mattino aveva terminato la lettura dei giornali. Mi chiamava per farne il resoconto con una sorta di lezione di geopolitica. Era straordinario».
Tutto ciò che ci sorprende in fondo lo è.
«Verissimo. Mi fai venire in mente il mio primo incontro a Berkeley con Czeslaw Milosz. Aveva una moglie georgiana e mi portarono in un ristorante dove lui ordinò polenta con le quaglie. Milosz era molto legato all’idea dell’Europa come entità spirituale. Mentre si abboffava discettava sui destini minacciati del vecchio continente. Era strano. Sorprendente appunto come può esserla una scena fortemente contrastata. Quando uscimmo dal ristorante mi prese a braccetto: “Come te la cavi?”, mi chiese. Non sapevo cosa rispondergli. Poi gli dissi: come le quaglie che hai mangiato. In fondo, i poeti sono tra i volatili i primi ad essere divorati».