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 2019  ottobre 19 Sabato calendario

Intervista ad Angelo Branduardi

Sono un trovatore e sempre vado per molti paesi e città.
Ora che sono arrivato qui, lasciate che prima di partire io canti.
Sono le parole di un trovatore tedesco dell’anno mille. Per tutta la vita le ho fatte mie». Angelo Branduardi è arrivato qui, alla soglia dei settant’anni (li compie a febbraio), con un grande tour e con la pubblicazione in vinile di una trilogia di album: Futuro antico, L’infinitamente piccolo e l’appena uscito Il cammino dell’anima, una lettura di Ildegarda di Bingen, la grande mistica medievale tedesca, scienziata, filosofa, teologa, teurga, drammaturga, scrittrice, pittrice, nonché straordinaria compositrice. Ma per capire il senso di quest’incontro, dobbiamo fare un passo indietro.
Branduardi, io la ascolto ininterrottamente dagli anni ’70.
«Poverina».
Erano i primi tempi delle radio libere. A un certo punto sento le sue “Confessioni di un malandrino” e riconosco i versi di un grande poeta russo, Sergej Esenin. Come mai proprio Esenin?
«Sentivo una grande affinità. L’ultimo poeta contadino: anch’io, anch’io! Un uomo bellissimo: anch’io, anch’io! (ride) Mi sono identificato e ho provato a metterlo in musica. Lo so che non si dovrebbe fare, perché la poesia ha già un suo solfeggio. Ma se si carpisce il solfeggio interno e lo si esplicita in quello musicale, allora anche la poesia si rende più comprensibile».
Da dove nasce la sua grande e, mi permetta, selettiva e sofisticata passione per la poesia?
«Da Franco Fortini, mio professore all’Università Statale di Milano, mio maestro, mio grande amico, primo e determinante incontro della mia vita. Erano i tempi in cui aveva pubblicato Foglio di via. Io venivo dal conservatorio ed eravamo un piccolo gruppo. Ogni pomeriggio andavamo a casa sua. Lì ho incontrato Pasolini ad esempio. E lì ho scoperto la poesia. Dante, anzitutto. Fortini aveva idee estremistiche con cui andavo d’accordo. Ci faceva leggere solo il Paradiso: diceva che il resto non serviva».
Molti anni dopo lei ha messo in musica il lungo brano del canto Decimo del Paradiso dedicato a san Francesco, con una resa della prosodia delle terzine, della sottigliezza ritmica e anche dei significati che Dante affida alle sue strane rime, assolutamente perfetta. Un capolavoro, come la sua versione del Canto di Bacco di Lorenzo il Magnifico: “Quant’è bella giovinezza che si fugge tuttavia”. C’è una genialità esegetica nella resa musicale di quei versi, della loro malinconia dionisiaca, tutto il vero mood del Rinascimento, un’età di vecchiezza, di riflessione. Ma penso soprattutto all’album che ha dedicato alle poesie di William Butler Yeats, il grande poeta irlandese.
«Un grande fiasco».
Commercialmente forse. Ma per alcuni di noi è stato una suprema rivelazione.
«Nel tempo è diventato uno degli album di culto della mia discografia. Quando uscì però la casa discografica voleva buttarmi “sul mercato sottostante”, come diceva Jannacci. (ride). Non è stato un momento facile. Ci avevamo lavorato come matti. Anche per via del controllo giornaliero del figlio Michael, senatore della Repubblica d’Irlanda e perfetto conoscitore dell’italiano. Ha negato non so quante volte il permesso di mettere in musica le poesie del padre. Addirittura Van Morrison aveva pronto un disco intero su Yeats e il figlio gli ha detto che non era la musica adatta».
I posteri, Branduardi, ci sono i posteri. E comunque lei, con questa sua tecnica della citazione, ha composto anche canzoni di grandissima popolarità. Per esempio il canto pasquale ebraico Chad Gadya, che “Alla fiera dell’Est” ha consegnato all’ascolto collettivo con piccole modifiche testuali e con un trattamento musicale che mi è sempre sembrato raffinatissimo perché mescola la tradizione medievale occidentale con…
«...con la melodia a intervallo unico, cioè con una delle cose più primitive della musica».
E con quei violini compatti che ricordano un po’ il mondo orientale, il mondo arabo.
«Nessun bambino delle elementari sa chi è Branduardi, ma chi è “il topolino” sì. Questo significa che la canzone non mi appartiene più. È diventata patrimonio popolare.
Questo sì che resisterà alla mia dipartita».
Dove ha attinto la sua pervasiva conoscenza del passato? Penso alle tradizioni poetiche, ma anche al folklore popolare, alle fiabe della tradizione celtica o alle tradizioni mitologiche, greche e non, e ai loro esiti ottocenteschi.
«Il pozzo delle storie è principalmente un libro: la Barzaz Breiz, gigantesca antologia di poesie e ballate celtiche. Da lì viene, per esempio, la canzone che ho intitolato La serie dei numeri. Poi ci sono altre tradizioni favolistiche orientali: per esempio Il dono del cervo è una storia giapponese. E poi ci sono versi di poeti più o meno mimetizzati: per esempio, quelli di Nazim Hikmet, il grande poeta turco. Altri testi vengono semplicemente dalla fantasia, specie da quella di mia moglie, Luisa Zappa».
Una fantasia che però riutilizza frammenti, schegge, atmosfere simboliche dei giacimenti tradizionali che ha menzionato.
«Io mi sento un trovatore: l’invenzione sta nel “trovare”, nel rinvenire. E questo vale anche per la musica. Nel medioevo esistevano “celle melodiche” che giravano per l’Europa, e non solo, che si trasmettevano circolarmente tra oriente e occidente e passavano di mano in mano tra i menestrelli erranti. Musica pentatonica, che se fatta in un modo è irlandese, se fatta in un altro è cinese, che utilizza scale identiche dall’uno all’altro capo del mondo. Le stesse che accomunano, ad esempio, anche le musiche andine».
Ma in questa trama musicale continua, desunta da vari passati, emergono a volte anche citazioni musicali dalla cosiddetta musica colta. È così?
«È così. E cito Händel, Bach, ma anche Wagner e Mahler, sa? Chi direbbe che sono un wagneriano? (ride) Eppure lo sono. Nella colonna sonora che ho scritto per il film Momo di Michael Ende — altro grande incontro, altro grande amico — ho costruito una melodia basata sulle musiche di quegli autori».
Da Esenin fino a Dante, il suo cammino prende una via sempre più mistica, di cui ora è arrivato forse il culmine: perché in Ildegarda si esercita attraverso la musica ma anche attraverso la parola scritta e in terzo luogo nella dimensione visiva. Le visioni di Ildegarda sono affidate, nei suoi manoscritti, a un’arte visionaria della miniatura, che qualcuno ha paragonato al Libro Rosso di Jung. Si tratta in entrambi i casi di una operazione di disvelamento di ciò che non può essere espresso, dell’inesprimibile per eccellenza.
«Sono rimasto toccato anzitutto dall’idea che nell’anno Mille una donna scrivesse musica. Non sono un esperto del suo genio teologico. Lo sono del suo genio musicale. Mi sono accorto che parte di queste melodie erano esoteriche e che questo si poteva sottolineare, ma sempre con rispetto, attraverso accorgimenti musicali, ossia con l’impiego della musica verticale, che a quei tempi non c’era, delle sue armonie, progressioni. Che si poteva darne, attraverso l’uso di certi strumenti antichi o moderni, una lettura, scusi il termine, divulgativa».
Diciamo democratica.
«Sì. E poi, soprattutto, che mi dava una felicità immensa. Nella composizione musicale si crea una condizione interiore diversa da quella perseguibile da qualsiasi delle altre arti, ed è questa che io inseguo».
Invece Luisa Zappa, sua moglie, che ha tradotto da tutte le lingue, adesso si è misurata con il latino di Ildegarda. Nei testi italiani tradotti e un po’ ricreati e adattati per questa sua opera avete tenuto presente soltanto i versi dei suoi Lieder o siete scivolati in qualche modo all’interno di suggestioni provenienti dalle altre sue opere?
«Ci siamo attenuti sempre con rispetto al brano, ma abbiamo scoperto un mondo in cui si scivola effettivamente dentro quasi senza accorgersene. Ho cercato di costruire una suite che avesse un suo inizio e una sua fine musicale, con un preludio e una coda, come si usava una volta. Ma così facendo sono scivolato nella musica delle sfere. Quando un musicista comincia a lavorare, soprattutto su questo tipo di cose, la mano va da sola. Non sono più io che suono il violino ma è lui che suona me. Bisogna scoprire quello che c’è già ma che va svelato. Non so se riesco a essere chiaro».
Molto chiaro. L’artista lavora per sottrazione.
«Abbiamo cercato di farlo in certi brani dove meno c’è, più c’è. Ad altri invece abbiamo dato una veste sinfonica perché la chiamavano. Dopo un bel po’ di tempo ho riusato la grande orchestra che dà a questo misticismo una dimensione ancora più vasta, dai bassi bassi del contrabbasso alla settima posizione del violino».
Che è poi quello che Ildegarda stessa scrive nella sua lettera all’arcivescovo di Magonza, in risposta all’interdetto di eseguire musica nel suo monastero. Parla del suono più basso come controllo del corpo e del suono più alto come tensione dello spirito. Ha presente?
Cita il salmo: “Proclamare il Signore sul liuto e suonare per lui sulla cetra a dieci corde”, e dice proprio così: “Egli desidera riferire il liuto, che suona più basso, al controllo del corpo; la cetra, che suona più alto, all’intenzione dello spirito; le dieci corde, al compimento della Legge”. Ildegarda ha una teoria della musica come entità che tiene tutto insieme.
«Spiega che l’anima dell’uomo è symphonialis, “sinfonica”. Parla dell’anima come sinfonia».
Ildegarda era un saggio, un sapiente. Era anche molto più colta di quanto lei volesse ammettere. Era un filosofo, era un medico, cosa che ogni alchimista non poteva non essere, era, oltreché una musicista, sicuramente un’astronoma. Queste diverse conoscenze che ora ci appaiono forse disparate facevano parte, allora, del canone della sapienza. Che però, se posseduta da una donna, andava nascosta perché...
«… Perché sarebbe stata considerata una strega. Non sono un esperto, ma due o trecento anni dopo queste sue attività le sarebbero valse il rogo».
Già allora, in realtà, non fosse stata così politicamente attenta. Un’ultima domanda. Ildegarda soffre moltissimo. Tutta la sua attività artistica e creativa è — lo dice lei stessa — reazione a quelli che definisce “momenti rovinosi del suo cuore”. Lei, Branduardi, ha parlato di felicità creativa. In che modo è connessa con questi momenti rovinosi del cuore?
«Anche in questo senso quella di Ildegarda è una voce moderna. Nella musica c’è un immenso travaglio. Almeno questo capita a me. Io scrivo perché per me è terapeutico. Poi capita che lo sia anche per altri. Mi faccia esagerare: scrivere musica è una particolare forma depressiva che si esalta e viene curata dall’opera. E la felicità dopo è grande».