Robinson, 19 ottobre 2019
Viaggio tra i luoghi di Jack Kerouac
È un caldo pomeriggio di ottobre a New York, l’estate indiana allontana la soglia dell’autunno, le ragazze si avviano alla scuola di danza in calzamaglie fluorescenti, magliette scollate, le sacche sulle spalle, ridendo e già ballando sulla strada. Quando aprono la porta d’ingresso nessuna di loro nota la targa, nessuna probabilmente sa che al piano di sopra, in quella casa nel Queens, tra il 1943 e il 1949, ha vissuto la famiglia Kerouac, che lì il figlio Jean Louis, detto Jack, ha progettato On the road. Per loro, e per molti altri, quello è un modo di dire, un marchio volgarizzato, come cellophane o aspirina: on the road è un qualunque libro o film dove due personaggi saltano in auto e vanno fino alla terza di copertina o ai titoli di coda.
On the road siamo tutti, prima di tornare a casa. E allora è proprio a casa che bisogna tornare, cinquant’anni dopo la morte del mago di Ozone Park, come lo chiamava Allen Ginsberg, per capire che cosa lo ha reso il più celebrato vagabondo d’America e che cosa è rimasto di quella sua traccia, oggi che non consultiamo più le mappe, o i libri e ogni percorso è predefinito, oggi che le generazioni durano pochi anni e la beat è solo una nicchia di mercato come altre che si sono succedute in vetrina e i suoi imitatori sfiatati non ci ingannano più con frasi e malesseri di circostanza. Il senso di ogni viaggio è nelle ragioni per partire e quelle di Kerouac vanno cercate a questo indirizzo, a cui più che ad ogni altro ha lottato contro le sue ossessioni: la scrittura, la fuga, l’alcol, la morte. Erano arrivati dal Massachusetts, i Kerouac. Il negozio del padre era andato distrutto e non avevano trovato lavoro stabile per lui e la moglie. Caricarono, tra le altre cose, il pianoforte e la scrivania verde di Jack. Suonava da autodidatta, a orecchio, per lo più musica jazz, la sera, dopo cena. Poi sua madre lo scacciava dallo sgabello e intonava canzoni d’amore canadesi. Quanto alla scrivania, fu presto abbandonata per il tavolo da cucina, “la maledetta cucina”, come la definì. La popolavano i fantasmi. Il primo era suo fratello Gerard, morto a nove anni, quando lui ne aveva quattro. Al capezzale «varie suore annotarono le sue ultime parole riguardo al paradiso e se ne andarono con gli appunti. Dicevano che era un piccolo santo». Di se stesso Jack dirà: «Sono un teppista e un santo». Gabrielle, la madre, che aveva trovato lavoro in una fabbrica di scarpe, accettava soltanto la prima definizione. Per tutto il tempo gli rinfacciò di essere vivo al posto del fratello. Detestò i suoi amici, tranne Ed White. Lui poteva sedersi a tavola con loro, guardarla assumere un’espressione assente mentre Jack, a fine pasto, leggeva a voce alta dai suoi manoscritti. Lei lo interrompeva chiedendogli di andare nel pub di fronte a farsi riempire di birra la teiera. È sopravvissuta al marito, a figli e alla figlia Caroline, morta d’infarto a 46 anni, mentre il suo uomo le annunciava al telefono che l’avrebbe lasciata. Leo, il padre, aveva trovato impiego a Brooklyn, come linotipista. Ogni tanto si concedeva qualche bevuta con il figlio e con il suo amico Lucien Carr, che avrebbe ispirato più di un personaggio, ma soprattutto l’assassino non immaginario di E gli ippopotami si sono lessati nelle loro vasche. Kerouac padre finì in cucina, nella “maledetta cucina”.
Stremato da un cancro allo stomaco, a 56 anni, seduto su una seggiola, gli stramazzò fra le braccia mentre erano soli in casa. Scrisse Jack: «E io morirò, e tu morirai, e tutti noi moriremo e col tempo anche le stelle si spegneranno». Come poteva andarsene via da quella cucina, da quella casa, da quella dannazione? Nel negozio di droghiere ( poi fioraio, poi pasticcere, ora scuola di ballo) c’era un telefono a pagamento. Il numero era VA- 3- 9822. Allen Ginsberg gli scriveva giorno e ora in cui l’avrebbe chiamato. Parlavano di cose lontane. Qualche volta si vedevano, salivano sul cavalcavia e Jack osservava disgustato il traffico su Atlantic Avenue: «come corsie da bowling per automobili». O prendevano la metropolitana fino a Rockaway, si sedevano sulla spiaggia a guardare l’oceano, più o meno dove ora ha casa Patti Smith. Kerouac aveva sempre un taccuino nella tasca posteriore, una sigaretta in bocca e una dietro l’orecchio. Ginsberg gli diceva: «Vattene con la fantasia». Al tavolo da cui vide morire suo padre, in soli tre mesi, fumando marijuana giorno e notte, scrisse La città e la metropoli, poi abbozzò Visioni di Cody che era l’abbozzo di un altro libro: Sulla strada.
Gli mancava ancora il coraggio di affrontarla. Le prove generali furono nel dicembre del 1949, poco prima di lasciare questa casa al 13301 di Cross Bay Boulevard. Traslocarono le cose della sorella, dalle Rocky Mountains. Il suo amico Neal Cassady aveva appena comprato una Hudson fiammante, color petrolio, un imperiale catafalco con cui fecero avanti e indietro a botte di tremila chilometri ogni volta, terminando la notte di Natale. Scriverà più tardi, dandogli le sembianze del Dean di On the road: «Ecco una Hudson del ’ 49 imbrattata di fango fermarsi davanti alla casa. Non avevo idea di chi fosse. Un uomo giovane, stanco, muscoloso sotto la maglietta stracciata, con la barba lunga e gli occhi rossi arrivò sulla veranda e suonò il campanello». Come se avesse visto Cassady arrivare dal futuro, dalla notte in cui, sfinito da un banchetto nuziale, vestito così, si incamminò sotto la pioggia, lungo la ferrovia, per incontrare, inevitabilmente, la fine. Non restava che «lietamente andarsene» dicendosi: «Non tornare, ti mangeranno vivo il cuore ogni volta».
Jack Kerouac è stato qui e non è mai più tornato. Neppure a parole. Non raccontava mai di questo tempo, di questo luogo. La biblioteca per ragazzi ora è una chiesetta. Ci sarebbe entrato per purificare l’anima in vista della resurrezione, in cui credeva. Sentiva il peso dei sopravvissuti e lo scarto dei non amati. Andò, che altro poteva fare? Trasfigurò le persone in personaggi per affrancarle dalla mortalità: se la vita è fantasia non possiamo morire, dato che non siamo mai vissuti e la morte non è reale, a nessuna età, in nessuna stanza. Jack Kerouac non è morto, se n’è andato. Come la sua New York, il Gaslight Cafe, la Cedar Tavern, l’Holiday Club, spariti, Hector e Automats, irriconoscibili, la White Horse Tavern, una trappola per turisti. Esiste un tour organizzato per visitare i posti di Kerouac a Manhattan: la cattedrale di Saint Patrick dove si rifugiava, la statua di Samuel Cox davanti a cui Allen Ginsberg gli scattò una famosa foto con la bocca aperta, l’appartamento di Chelsea ( oggi loft di lusso affittato a 11 mila dollari al mese) dove infine scrisse On the road su quella specie di rotolo del Mar Morto lungo 36 metri ( in realtà usato per le telescriventi della United Press, dove lavorava Lucien Carr). Il tour difficilmente si spinge fin qui, nel Queens. Bisognerebbe insistere. Eppure è qui che la strada è cominciata, qui che un ragazzo solo si è trasformato in un viaggiatore solitario. L’America era il suo “sogno ammissibile”, tutti gli altri: incubi di consolazione.