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 2019  ottobre 19 Sabato calendario

Intervista al genetista David Reich: «Le razze esistono»

Essere un ebreo ashkenazita della East Coast americana, per la professione di David Reich comporta alcuni vantaggi: innanzitutto è la prova vivente di che cosa significhi occuparsi di «genetica delle popolazioni», perché il suo gruppo d’origine è, appunto, uno dei più studiati («allo sfinimento») dai ricercatori, tanto che lui stesso ha deciso di non sprecare tempo con un test del Dna; quando scrive, e dice, che «è ovvio che siamo tutti diversi, per forza dobbiamo esserlo», non può essere accusato di perorare teorie razziste; se gli sorge un dubbio di natura etica sul suo lavoro, per esempio se sia lecito andare a disturbare ossa vecchie di migliaia di anni che riposavano quiete nelle loro tombe, per analizzarne il Dna, può rivolgersi allo zio rabbino, ricevendo, di fatto, un via libera alla sua attività. Di mestiere David Reich è professore di Genetica alla Harvard Medical School e, più che specializzato in «genetica delle popolazioni», si può dire che sia uno dei pionieri del settore, sviluppatosi enormemente dopo che Svante Pääbo ha messo a punto nuove tecnologie di analisi all’Istituto Max Planck per l’antropologia evoluzionista di Lipsia: «Qualche anno fa sono stato coinvolto dai colleghi europei, in Germania, e ho avuto l’opportunità di analizzare il Dna umano antico. E così ho intrapreso una nuova strada» racconta al telefono, da Harvard. La strada della «rivoluzione del Dna antico» che, già alla fine del 2015, ha portato il laboratorio di Reich a pubblicare «più di metà del Dna antico umano su scala del genoma disponibile al mondo».
Che cosa questa rivoluzione riveli di noi, della nostra storia, del nostro passato e delle nostre vite è ciò che Reich racconta nel saggio Chi siamo e come siamo arrivati fin qui. Il Dna antico e la nuova scienza del passato dell’umanità (Raffello Cortina, pagg. 406, euro 29).
Professor Reich, perché quella del Dna antico è una rivoluzione?
«È paragonabile, per importanza, all’invenzione di un nuovo strumento scientifico, come fu, per esempio, il cannocchiale. Ci consente di indagare un mondo che prima non potevamo vedere, e di guardare, attraverso il passato, fino alle persone che vivono oggi».
Ci sono state delle sorprese?
«Molte. Siamo riusciti a tracciare il modo in cui le popolazioni si sono mescolate nella storia, mostrando come le migrazioni siano sempre avvenute. Abbiamo mostrato che è avvenuta una ibridazione fra i Neanderthal e gli umani moderni. E che la struttura delle popolazioni dell’Eurasia occidentale, circa 10mila anni fa, era completamente diversa dalla struttura attuale».
Diversa in che modo?
«Oggi, in quest’area, c’è una differenziazione genetica relativamente piccola, poiché tutte le persone sono raggruppate, di solito, come caucasiche o bianche, nonostante questi schemi razziali di classificazione siano problematici; ma diecimila anni fa la regione ospitava almeno quattro gruppi, tanto diversi fra loro quanto lo sono, oggi, gli europei e gli asiatici dell’Estremo oriente».
Che cosa ci dice la genetica della disuguaglianza?
«Il Dna antico documenta le disuguaglianze del passato fra le popolazioni. Oggi la grandissima maggioranza delle persone è un crossover, una mescolanza di varianti, di caratteristiche diverse che si sono sviluppate».
Però lei spiega che queste categorie biologiche non c’entrano con il concetto di «razza».
«La razza è un costrutto sociale, un fenomeno culturale. Il termine razza si riferisce alla percezione che le persone hanno delle differenze di ascendenza fra le persone, e non alle vere differenze d’origine. È evidente che la percezione di quelle differenze – ovvero, la razza – è spesso molto diversa dalla realtà di esse».
Ma le diversità ci sono?
«Certo, ci sono le differenze fra le popolazioni. Devono esserci per forza. Ma quello che rivela il Dna, su queste differenze, non corrisponde agli stereotipi ai quali pensano le persone».
Per esempio?
«Gli stereotipi secondo cui una popolazione sia più intelligente di un’altra, per esempio. Non c’è alcuna base scientifica per questo genere di stereotipi. Siamo tutti mescolati. E, attraverso queste mescolanze, si può vedere anche la storia della disuguaglianza».
Il Dna antico racconta anche del potere, e della disuguaglianza di genere attraverso i millenni.
«Il Dna antico ci può dire come alcuni singoli individui siano stati in grado di avere molti più figli di altri, in un passato lontano, e di trasmettere il loro status sociale ai loro figli, così che gli stessi figli potessero a loro volta avere molti più figli rispetto agli altri. Il Dna antico ci mostra anche come, nelle mescolanze avvenute fra le popolazioni, da una parte abbiano contribuito molti più uomini che donne. E questa è una prova di una disuguaglianza sociale estrema».
Per esempio in quali casi?
«Oggi, gli Afroamericani hanno circa il 20 per cento di ascendenza europea, ma questa ascendenza proviene, in rapporto di quattro a uno, dal lato maschile, il che riflette la disuguaglianza sociale estrema tipica del periodo della schiavitù, quando i padroni maschi avevano figli con le schiave femmine».
E in Europa?
«Qualcosa di simile è avvenuto anche nella Penisola iberica circa 4mila anni fa, quando c’è stata una mescolanza fra le popolazioni che vivevano già lì stabilmente e una popolazione arrivata da Oriente. Dopo l’incontro, circa il 40 per cento dell’ascendenza della popolazione mescolata proveniva dalla popolazione orientale, ma tutti i cromosomi Y provenivano dagli orientali, il che dimostra come, nel processo di mescolamento, i maschi nuovi arrivati da Est avessero surclassato i maschi locali nell’accoppiarsi con le femmine del luogo. Una prova genetica di disuguaglianza sociale estrema».
Quindi possiamo dire che la disuguaglianza, fra i sessi, fra le classi sociali e fra le popolazioni, abbia plasmato l’umanità e la sua storia?
«Sì, assolutamente. Nel passato, così come oggi».
È vero, però, che per uno scienziato è un tabù occuparsene?
«Fra i genetisti della popolazione, come me, non c’è alcun tabù nell’indagare le differenze di ascendenza fra le popolazioni umane. È uno dei nostri impegni principali. Lo studio delle differenze fenotipiche medie, differenze biologiche che influenzano la salute o il comportamento o gli attributi fisici, non è qualcosa di abituale fra i genetisti della popolazione, ma lo è fra gli epidemiologi. Al momento conosciamo poco della codificazione genetica di queste differenze, ma qualcosa sappiamo».
Che cosa?
«Il tempo evolutivo in cui si sono separate le popolazioni umane è stato sufficiente a far sì che si siano sviluppate differenze significative, per la pressione della selezione naturale. Le differenze sono quasi sicuramente molto più piccole, rispetto alle diversità fra i singoli individui – in media, sei volte più piccole».
E allora perché si parla di tabù?
«Ci sono molte preoccupazioni, oggi, sul fatto che le differenze genetiche medie fra le popolazioni possano influenzare la società e contribuire alla discriminazione. E, per questo, è diventato tabù parlare, o indagare, la possibilità di queste differenze. Detto questo, credo che il tabù sia più pericoloso che utile».
Perché?
«Dobbiamo sviluppare un linguaggio sofisticato per parlare della realtà di queste differenze genetiche medie, anche se piccole, fra le popolazioni. Se, invece, non ne parliamo, per paura, allora lasciamo un vuoto nel dibattito pubblico, che potrà essere riempito dalla pseudoscienza, e lascerà spazio al razzismo».
Quindi bisogna parlarne?
«Noi scienziati abbiamo la responsabilità di parlare della natura delle differenze biologiche fra le popolazioni, e dei limiti di esse».
Le prossime sfide per la scienza del Dna antico?
«Primo, costruire un atlante del Dna antico con tutte le varianti umane in tutti i luoghi e le epoche negli ultimi 50mila anni. Secondo, fare sì che il settore maturi e si colleghi sempre più all’archeologia. E, infine, riuscire a imparare tanto della biologia quanto della storia».