Tuttolibri, 19 ottobre 2019
L’uomo è un animale che ride
Forse il grande etnologo francese Marcel Mauss quando formulò l’espressione «fatto sociale totale» non pensava all’atto del ridere, invece il suo connazionale David Le Breton ha provato ad applicare quel modello e il risultato è quanto mai sorprendente. Mauss per «fatto sociale totale» intendeva quegli aspetti particolari di una cultura, che sono in relazione con tutti gli altri aspetti di quella cultura. Detto in altri termini, attraverso l’analisi di un fatto sociale totale, è possibile leggere per estensione le diverse componenti di una società. È questa la stella polare che guida Le Breton nella sua lunga e complessa analisi dell’homo ridens.
Ridere sembra essere in fondo cosa davvero umana, come già aveva intuito Bergson, quando scriveva: «Alcuni hanno definito l’uomo "un animale che sa ridere". Avrebbero potuto definirlo altrettanto bene un animale che fa ridere». La risata, l’umorismo nelle sue varie sfaccettature consentono a Le Breton di indagare su molti aspetti della natura umana. Il riso, per esempio, unisce e divide. In molte situazioni il ridere di qualcosa o di qualcuno può creare complicità, ma ogni forma di comicità è profondamente radicata nel proprio contesto culturale e di conseguenza non sempre è traducibile. Ne sanno qualcosa Dolce & Gabbana con il loro disastroso tentativo di creare uno spot ironico per il mercato cinese. Ogni società, infatti, sviluppa delle «linee guida» dell’umorismo e dei confini che dovrebbero essere superati, come ricorda il proverbio nostrano «scherza con i fanti, ma lascia stare i santi».
Il ridere è però, in molti casi un fattore socializzante, facilita le relazioni in un gruppo, stempera il discorso e affievolisce eventuali interpretazioni negative o malintesi. In qualche modo, ci dice l’autore, alleggerisce il peso di un qualunque scambio verbale. Un sorriso, una battuta, anche nel mezzo di una discussione seria, in fondo aiutano ad attenuare la tensione nelle relazioni. Anche perché in molti casi il riso incanala la derisione, lo scherno (a qualsiasi livello) verso qualcun altro.
Si ride insieme, ma di qualcun altro o di un gruppo. Di chi è fuori dal comune per l’aspetto, per l’atteggiamento, per la sua diversità diventa il capro espiatorio, in una forma più o meno accentuata.
Questi altri possono, per esempio, essere i potenti: mettere alla berlina chi si crede e si sente superiore, provoca spesso la risata. Basti pensare ai film di Charlie Chaplin, dove ricchi, poliziotti, grandi padroni vengono regolarmene irrisi dal povero Charlot. L’umorismo spesso scaturisce proprio dall’atto trasgressivo, dalla rottura degli schemi dominanti: la torta in faccia a un povero non fa ridere, quella che colpisce la signora ingioiellata, l’uomo ricco, l’autorità sì.
La risata, in questi casi, è trasgressiva. «Sarà una risata che vi seppellirà», dichiarava un celebre motto anarchico. Non a caso spesso i potenti temono l’ironia più di altri strumenti di attacco politico, perché all’ironia è più difficile rispondere, a meno di non essere ancora più ironici. Pensiamo al caso di Giulio Andreotti, autore di battute diventate celebri, ineguagliabile nell’usare l’ironia proprio come arma di difesa.
In molti casi, quindi, l’ironia nasce da una volontà di rivincita, dal capovolgimento, seppur momentaneo, dello status quo. C’è però anche un’ironia capovolta: Le Breton cita la celebre comica in cui Stan Laurel e Oliver Hardy devono portar un pianoforte su per una scala. Qui, come peraltro in quasi tutte le storie di Stanlio e Ollio si ride della dabbenaggine dei protagonisti. Non c’è critica sociale, ma una inadeguatezza talmente estrema, da provocare la risata.
L’umorismo può rivolgersi contro qualcuno, ma anche contro un gruppo e diventare patrimonio del gruppo che la esprime. Qui la risata può avere due valenze, ci dice l’autore: una di tipo razzista, in cui l’ironia diventa sarcasmo, disprezzo e spesso diventa un modo per dissolvere la paura dell’altro, una catarsi. Allo stesso tempo esprime anche la comune sensazione che qualcosa non funzioni all’interno del legame sociale. Un umorismo che gioca con il malessere dissolvendolo, sforzandosi di ritualizzarlo, rimanendone comunque totalmente intriso.
Ci sono, invece però casi in cui l’umorismo tra i gruppi diventa una modalità di risoluzione delle tensioni. È il caso delle «relazioni scherzose che intercorrono fra certi gruppi etnici africani», per cui se ci si incontra, ci si saluta insultandosi scherzosamente sugli stereotipi che uno ha dell’altro. Questa pratica, non nasconde le diversità tra i due gruppi, le sdrammatizza, riconosce l’esistenza di un contenzioso, ma non gli dà peso. In questo modo, il conflitto rimane sublimato, espresso ma, al tempo stesso, attenuato. L’umorismo sottolinea le divergenze senza farne motivo di scontro perché, in questo contesto, il riso è condiviso: protegge l’atmosfera del gruppo salvando le apparenze e dissolvendo i dissidi tra gli individui, attenuando le recriminazioni e le gelosie, alle quali offre una modalità di espressione lecita. L’ironia qui diventa pedagogica, perché apre a un altro sguardo, ricordando che ogni evidenza e costruita a partire dal crogiolo di senso che gli esseri umani elaborano nelle rispettive differenze. L’ironista sostiene che la verità non possiede alcun centro di gravità. Il vocabolo greco eironeia significa «interrogazione».
Le Breton percorre i numerosi sentieri del ridere, dell’ironia, dell’umorismo, in un cammino ricco di esempi e aneddoti che ci portano a comprendere come nelle sue diverse forme, l’umorismo sia un valore importante delle relazioni sociali. Un atto che autorizza a derogare dall’ordine delle cose, un caos provvisorio messo in atto per favorire la distensione, una presa di distanza critica e attiva nei confronti del mondo.
Riprendendo il pensiero di Mauss, citato, all’inizio, possiamo dire che il far ridere è un dono, perché in fondo mira a suscitare il controdono dell’ilarità degli altri, e la riconoscenza per aver regalato dei momenti di giubilo.