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 2019  ottobre 19 Sabato calendario

Biografia di Stefano Senardi raccontata da lui stesso

Stefano Senardi, classe 1956, ligure di Imperia, ha attraversato da protagonista, pur restando sempre dietro le quinte, gli ultimi quarant’anni di musica italiana. Ora tiene in piedi il premio Tenco, in questi giorni a Sanremo, con l’aiuto di alcuni veterani della rassegna come Sergio Staino.
Grandi discussioni, quest’anno, per la scelta di far aprire la rassegna a Achille Lauro. Lei ha detto: «Ci giochiamo molto, io e lui».
«Ha fatto una versione punk di Lontano, lontano, com’era giusto, accompagnato da Morgan al pianoforte, indossando una toga, accolto con entusiasmo dal pubblico. Tra l’altro, da due, tre anni, stiamo riempiendo l’Ariston come ai vecchi tempi, con tanti giovani. È essenziale, per avere un futuro».
Sanremo è quasi casa sua, al Tenco veniva da spettatore?
«Da studente sì. Poi sono stato uno dei pochissimi discografici accettati al Tenco e soprattutto al dopo Tenco. Ero pieno di buona volontà, andavo a trovare Amilcare Rambaldi e gli facevo proposte. E nel 1988, quando ero alla Wea, portai Joni Mitchell».
Com’è entrato in discografia? 
«1979, anni di piombo, volevo andarmene da Imperia, darci un taglio. Lavoravo part time in un negozio di dischi, pagato in lp. Leggo un annuncio sul giornale e riesco a farmi assumere dalla Cgd, Compagnia generale del disco: con base a Bologna e copro cinque regioni: radio private, negozi e discoteche. Mi chiamano in sede, a Milano, e dopo una settimana il mio capo mi chiede di andare a prendere sua figlia alla scuola di danza. Io invece prendo l’ascensore e salgo al quarto piano per dimettermi. Ma Caterina Caselli, che già comandava, mi ferma, mi prende con sé e mi dà un tavolino vicino alla sua scrivania. È stata la mia scuola».
Si può lavorare con la musica e rimanere un appassionato?
«Certo. I gusti cambiano, si diventa onnivori, che è poi la condizione migliore. Da ragazzo, come tutti negli Anni 70, avevo le fasi: la West Coast a certo rock inglese che andava verso il Prog, Robert Wyatt che è ancora una grande passione, Bob Dylan, e infatti mio figlio si chiama Matteo Bob Dylan Senardi. Tutto il rock, un po’ di italiani, De Gregori, Guccini, Battiato fin dai tempi di Fetus e Pollution. Tra il ‘65 e la fine degli Anni 70 i dischi veramente belli saranno duemila, non esagero: un’epoca d’oro».
Possiede ancora quei dischi? 
«Ho un collezione di 19 mila lp e 35 mila cd. E di almeno la metà di quei dischi io so tutto, anche chi ha fatto la copertina». 
Infatti per Sky Arte è l’autore del programma 33 giri, in cui racconta come sono nati certi album italiani storici.
«Il bello è che apriamo i nastri originali, spesso con i protagonisti che ricordano e a volte scoprono. Ho visto artisti come Vasco o Gianna Nannini commuoversi. Presto annunciamo la nuova stagione, con Carboni, Capossela, Zucchero».
Dopo la Cgd lei è passato alla Wea, Warner Elektra Atlantic, negli Anni 80 la casa delle superstar.
«Prince, Madonna, che però nell’Europa continentale non funzionano. Qui mi appunto una medaglia: è mia l’idea di fare uscire Who’s That Girl?, canzone di Madonna dalla colonna sonora di Cercasi Susan disperatamente con Like a Virgin, l’album che da noi non va come dovrebbe. Madonna accetta e il disco vola. Qualche anno dopo sono a Torino, nel camerino dello stadio, a tradurre per lei "Siete caldi?", "Siete pronti?" che poi dirà, come tutti ricordano, dal palco».
Poi torna in Cgd, questa volta a comandare, dopo che la Caselli - guarda caso - vende alla Warner.
«Eravamo affiatati e arrabbiati, ci avevano mandati lì quasi in punizione, il primo anno abbiamo fatturato quasi il doppio di quello che la Cgd era stata pagata. Abbiamo fatto i bestseller di chiunque, Ruggeri, Capossela, con i Pooh abbiamo vinto Sanremo, 400 mila copie con i Litfiba. E poi l’ultimo album di Mia Martini, il ritorno di Pino Daniele». 
Se le dico PolyGram, di cui è stato presidente negli Anni 90, che cosa le viene in mente?
«Il compimento della rivoluzione copernicana di Jovanotti. Aver conosciuto Ferretti e messo insieme i CSI. E la straordinaria amicizia con Franco Battiato, ora purtroppo rallentata per motivi oggettivi. Poi un grande gruppo di lavoro, che come me era un po’ borderline nel divertimento, ma portava grandi risultati: avevamo il 60% del mercato italiano».
Lei se ne va nel 1999, l’ultimo anno prima del crollo della discografia mondiale.
«Fummo acquistati a livello mondiale dalla Universal, dovetti consegnarmi al nemico. Vendetti care le dimissioni, però a quei livelli ci vuole un fisico bestiale, il mobbing può essere terrificante». 
Nel mondo della musica è cambiato tutto da allora.
«Più d’una volta. Siamo passati dal peer-to-peer al download allo streaming a queste "visualizzazioni" che rendono pochissimo alla casa discografica e all’artista e non stimolano a fare cose che durino nel tempo. Però ancora non abbiamo visto il cambio epocale. Siamo in curva, non so dire cosa c’è dopo. Di positivo c’è la possibilità di partire dal basso, tutto nasce tutta da piccoli gruppi indipendenti, autogestiti, amici di scuola, gente che gira intorno a un locale. Però c’è troppa roba di poco valore, questi pezzi di sapore latino sono tutti uguali, se li canta J-Ax o la Ferreri, o Mahmood, è la stessa cosa». 
Dopo Soldi da Mahmood ci si attendeva di più?
«Mahmood l’ho sostenuto quando facevo Area Sanremo, sono stato felice della sua vittoria. Ma questo passaggio latineggiante mi preoccupa. È un segno di debolezza che nasconde ingordigia». 
Non è che oggi avere una carriera è molto più difficile? Anche i talent...
«Collaboro a X Factor e sono passato anche dalla De Filippi, so bene che quelli che escono da lì sono più famosi che bravi. Se non si mettono a posto con l’inglese, se non imparano a suonare bene uno strumento e a stare sul palco, è durissima».