Corriere della Sera, 19 ottobre 2019
Comprarsi Banksy online
Banksy for all? Siamo dinanzi a uno tra gli artisti più controversi e ambigui del nostro tempo. Un po’ Salinger e un po’ Warhol.
Il Banksy-Salinger, innanzitutto. L’artista che, come pochi altri (Elena Ferrante), ha capito che, nella nostra epoca, meno si appare più si esiste. Nella civiltà dello spettacolo, meglio rendersi invisibili. Introvabili. Nascondersi. Difendere un’ostinata clandestinità. Disseminare in maniera calcolata tracce verosimili. Soprattutto, meglio parlare con le proprie opere e con i propri gesti.
Sono, quelle di Banksy, opere che «vivono» su facciate di palazzi, in zone di guerra, in luoghi pubblici dal forte valore simbolico.
Rappresentazioni pittoriche ludiche, che affrontano tematiche drammatiche e insinuano in noi domande dolorose. Immagini giocose, dense di richiami alla Pop Art, al graffitismo e ai cartoon e, insieme, perturbanti. Iconografie segretamente politiche e militanti. Impossibili da collezionare.
Incendiario e luddista, Banksy si sottrae a ogni possibile strumentalizzazione mercantile. Sceglie, perciò, di muoversi in campo aperto, elaborando un’arte «di strada». Si porta al di là dei confini della cornice del quadro, depositando sui muri di molte città del mondo le proprie drammaturgie selvagge. Che rivelano bisogno di trasgredire i confini istituzionali del sistema dell’arte. E insofferenza nei confronti dei musei, delle gallerie, dei grandi eventi (la Biennale, la dOCUMENTA di Kassel) e di ogni tipo di mediazione (critici, direttori di musei, galleristi, dealers).
Poi, c’è il Banksy-Warhol. Che anni fa, per frenare falsi e truffe, ha promosso addirittura un sito (Pest Control). Il Banksy che, percorrendo sentieri alternativi, è entrato nell’artworld: i suoi lavori vengono venduti online, battuti all’asta per migliaia di sterline e messi in commercio da alcune gallerie. Il Banksy che – secondo alcuni – realizza anche quadri destinati a una cerchia ristretta di facoltosi collezionisti. E ancora: il Banksy che, quotidianamente, pubblica post di notevole efficacia visiva e comunicativa sui suoi profili social. Infine, c’è il Banksy che, recentemente, ha inaugurato a Londra un temporary pop-up shop. E che ha annunciato sui social l’apertura di un sito (www.grosdomesticproduct.com), dove è possibile comprare oggetti a metà tra arte e design: lampade antropomorfe, borse simil-Vuitton in pietra con manici in pelle, orologi che ricordano ruote con topi, caschi specchiati, camion dai quali fuoriescono migranti miniaturizzati, cuscini con slogan stampati (come «Life’s Too Short»), televisori personalizzati dallo street artist di Bristol e t-shirt nelle quali il logo Adidas viene cancellato e sostituito con la firma dello stesso Banksy.
Uno shop online che – ne siamo certi – sarebbe piaciuto molto a Dalí, a Warhol, ad Haring e a Basquiat. In sintonia con queste figure, Banksy è affascinato dall’«arte moltiplicata». La sua sfida: dipingere opere impossibili da acquistare e, al tempo stesso, produrre opere d’autore poco costose.
Per un verso, egli si sottrae alle liturgie proprie del sistema dell’arte. Per un altro verso, sogna un’arte per tutti, alla portata di tutti (i prezzi dei vari prodotti in vendita sul sito variano da 10 sterline della mug in edizione illimitata a migliaia di sterline). Pur indossando la maschera del dissacratore, appare sensibile alle sirene del mercato, che da sempre tende ad accogliere, a nutrirsi e a cannibalizzare i linguaggi d’avanguardia.
Qualcuno giudicherà con severità queste contraddizioni. Ma forse sono i volti diversi di un Giano bifronte. Che non vuole risolvere antitesi e aporie. Ma le esalta e le celebra. Non senza furbizia e cinismo. Prendendosi gioco di noi.