Il Messaggero, 19 ottobre 2019
La liberazione di Belgrado il 20 ottobre 1944
Domani ricorre il 75° anniversario della liberazione di Belgrado dall’occupazione nazista. Non fu un evento decisivo della seconda guerra mondiale, le cui sorti, nel teatro europeo, furono segnate in Normandia, nelle Ardenne e nelle steppe russe. Ma fu un evento politicamente significativo, che condizionò gli equilibri postbellici nelle zone più cruciali durante la guerra fredda. Perché Tito, comunista inflessibile ma nazionalista orgoglioso, contribuì in modo determinante alla liberazione di Belgrado, ponendo così una importante ipoteca sull’influenza di Stalin nei Balcani In questo modo, per uno dei tanti paradossi della storia, il successo di un leader comunista costituì il primo scacco all’imperialismo sovietico. Ma, prima occorre dare uno sguardo al teatro bellico complessivo.
LE ARMATENell’autunno del 1944 gli angloamericani avevano liberato la Francia, il Belgio e gran parte dell’Olanda, ma si erano fermati ai confini della Germania. In Italia, si erano impantanati sulla linea gotica, rinviando a primavera ogni nuova offensiva. A est, i Russi avevano riconquistato quasi tutto il territorio perduto, ma la ritirata tedesca era (quasi) sempre avvenuta in modo ordinato. La follia di Hitler di non cedere nemmeno una zolla di terreno aveva sacrificato varie armate, ma era stata compensata dalla brillante tattica dei suoi generali che avevano evitato un crollo fatale. La Germania aveva ancora un esercito di sette milioni di uomini, produceva più aerei e più carri armati che nei quattro anni precedenti, occupava vasti territori dalla Norvegia alla Grecia, e non dava nessun segno di cedimento.
Fu in questo contesto che i Russi attaccarono il fronte ritenuto più sguarnito, quello balcanico, puntando su Belgrado. In realtà era un fronte impervio e insidioso, perché ogni montagna era un nido di resistenza, ogni fiume un varco invalicabile ed ogni gola un rischio di agguato. I nazisti vi avevano concentrato, sotto il comando del valente feldmaresciallo Von Weichs, truppe eterogenee: divisioni alpine, gruppi di SS, elementi della Luftwaffe, e collaborazionisti locali, determinati e crudeli anche più dei loro protettori. Le loro retrovie erano minacciate e martoriate dalle operazioni dei partigiani titini, che ormai costituivano un vero e proprio esercito di liberazione nazionale, ben strutturato gerarchicamente e ben fornito di armi paracadutate dagli inglesi.
Churchill, pur visceralmente anticomunista aveva capito che, dopo la rinunzia di Roosevelt a sbarcare nell’alto Adriatico, Tito sarebbe stato l’unico in grado di opporsi alle mire espansionistiche di Stalin.
L’offensiva russa scattò il 4 Ottobre 1944, con venti divisioni e cinquecento carri armati, e fu efficacemente supportata dalle brigate partigiane di Tito, che si batterono così fieramente da entrare per prime nella capitale: il 20 Ottobre 1944 la bandiera rossa e quella titina sventolarono insieme su Belgrado liberata.
LA DISCIPLINA
Militarmente non fu gran cosa. I tedeschi ripiegarono, come avevano fatto in Italia, con metodo e disciplina, e riuscirono a sfilare dalla Grecia l’intero esercito di occupazione, recuperando trecentomila uomini che altrimenti sarebbero stati tagliati fuori e annientati. Le divisioni russe furono richiamate a ovest per partecipare all’offensiva sul fronte ungherese e, i combattimenti in Serbia, Montenegro, Bosnia, Croazia e Slovenia continuarono quasi esclusivamente tra tedeschi e titini, con sempre crescente e intensa ferocia. Quando, nel maggio del 45, la guerra finì, Tito potè legittimamente proclamare che la Jugoslavia si era liberata da sola.
Il vittorioso generale fece un uso spregiudicato di questa autorità conquistata sul campo. Il suo principale obiettivo era il mantenimento della precaria unità nazionale sotto il proprio comando,al di sopra di ogni altra considerazione sia umanitaria che ideologica. Tito fu inesorabile verso le minoranze etniche, compresa la nostra, e fu opportunista ai limiti dell’eresia verso la Chiesa madre di Mosca, di cui era stato fervente fedele. Quando Stalin avanzò le sue pretese egemoniche, servilmente assecondate dai partiti comunisti occidentali, Tito oppose la sua visione di un socialismo non certo dal volto umano ma almeno dal volto autonomo.
Nel 1948 avvenne l’irreparabile frattura e il rude dittatore moscovita lanciò l’anatema contro il dissidente di Belgrado. Tito reagì da par suo: spedì in galera, e talvolta alla forca, centinaia di comunisti di stretta osservanza filosovietica, tra i quali molti italiani che avevano creduto nella palingenesi rivoluzionaria. Montanelli si vantava di tenere sulla scrivania un busto di Stalin, perché nessuno come lui aveva eliminato tanti comunisti nelle purghe degli anni trenta. Avrebbe potuto aggiungervi quello di Tito. L’Isola Calva fu il campo di concentramento dei nostri stalinisti puniti dalla nemesi dell’auspicata giustizia proletaria.
LA RIBELLIONE
Stalin reagì furibondo a questa ribellione: i suoi proconsoli erano ormai al governo nell’ Europa dell’est, e dirigevano un’intransigente opposizione in Francia e in Italia. Tutti, da Togliatti a Thorez si allinearono con il satrapo del Cremlino, rinnegando e sbeffeggiando quel Tito che fino a poco prima avevano considerato un eroe. Non è vero che, come sosteneva Voltaire, niente più della stupidità umana dia l’idea dell’infinito. La fanatica sottomissione ideologica è più estesa, e più funesta, delle nostre deficienze intellettive. In ogni caso, Tito si trovò contro l’intero mondo comunista, ma non si scoraggiò. Al contrario: dopo aver sventato una serie di congiure ordite da Stalin per sopprimerlo, mandò al baffuto dittatore un messaggio inequivoco «Compagno Stalin, prima mi avete mandato un sicario per assassinarmi, e l’abbiamo scoperto; poi ne avete mandato un altro, e poi un altro ancora. Ora basta, altrimenti ne mando uno io, e stia certo che non fallirà».
Stalin smise di tramare, e la Jugoslavia costituì per quarant’anni lo stato cuscinetto tra i carri armati del Patto di Varsavia e le democrazie occidentali Tutto questo non sarebbe avvenuto senza la battaglia di Belgrado. Essa infatti non costituì l’epilogo, ma l’inizio di una guerra di liberazione. Altre città, come Parigi o Milano, sarebbero insorte solo con gli Alleati alle porte, contribuendo in modo insignificante all’evacuazione di un nemico già in rotta. Belgrado, al contrario, costituì il principio di un percorso che si concluse sette mesi dopo, quando le truppe naziste alzarono bandiera bianca. Purtroppo per noi, questa pagina di valoroso coraggio patriottico fu macchiata dalla brutale rappresaglia che i comunisti iugoslavi attuarono verso i nostri connazionali, con la tragedia delle foibe e l’agonia di Trieste. Ma di quest’ultima parleremo la prossima settimana.