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 2019  ottobre 13 Domenica calendario

Nevo intervista Nevo. Che romanzo!

Conobbi Eshkol Nevo parecchi anni fa, poco tempo prima di iniziare a conoscere i suoi libri. Mi colpì la sua aitante bellezza. Guarda che cavolo di occhi azzurri, mi colsi a pensare, mentre mi tornavano in mente tutte le volte che mia madre mi aveva inflitto la visione integrale di Exodus in tv.
Eravamo ospiti di un festival a Gerusalemme, il tipo di kermesse che vorrebbe favorire l’incontro tra scrittori israeliani e scrittori della diaspora. Date le circostanze, lui fu un formidabile padrone di casa, io un ospite maldestro. Nel libro di cui tra qualche secondo parlerò, Nevo sfotte con grazia sia i festival letterari che gli ebrei della diaspora: ricordando il nostro incontro mi sono sentito avvampare di vergogna. Da allora la mia sollecitudine nei suoi confronti ha assunto i tratti della fedeltà. Non c’è libro di Nevo uscito in Italia nell’ultimo decennio su cui non abbia sentito l’esigenza di scrivere, cogliendo ogni volta la palla al balzo per rinnovare il mio entusiasmo e fare il punto sullo stato della sua ispirazione. Ho visto Nevo migliorare, irrobustirsi, smarrirsi, prendere abbagli, fare il passo più lungo della gamba e migliorare ancora. L’ho visto definire – con la pertinacia dei pochi veri scrittori in circolazione – gli sfrangiati confini della sua indagine. Acquisire piena coscienza di sé, diventare famoso, fare il piacione con il lettore come i suoi personaggi maschili ci provano con le ragazze.

S’intitola L’ultima intervista. E lo dico subito: è il frutto di un’idea magnifica magnificamente articolata e, immagino, di una non meno impellente insofferenza.
Prima o poi capita a tutti – parlo di chi per vivere scrive romanzi. Inizi ad accusare una certa stanchezza, non tanto per le narrazioni cosiddette tradizionali, ma per gli stilemi cui tali narrazioni ti condannano. Di colpo espressioni come «lui disse», «lei rispose», «il vecchio ammiccò», «la ragazza arrossì» e via discorrendo ti appaiono talmente trite e ingombranti che non ci credi neanche tu che le utilizzi, figurarsi i lettori che se le devono ciucciare. Da qui l’esigenza di scompaginare inventando contenitori bizzarri che ti restituiscano charme, freschezza e una certa credibilità. Da qui l’impulso a metterti in gioco in prima persona.
Be’, occorre dargliene atto: stavolta Nevo se n’è inventata una davvero brillante. Ha immaginato sé stesso – lo scrittore Eshkol Nevo – alle prese con una lunga intervista composta dalle tipiche domande rivolte ai romanzieri eminenti da che mondo è mondo. Interrogativi standard che non costano molto impegno di fantasia all’intervistatore consentendo all’intervistato di rifugiarsi in corner. «Cosa la spinge a scrivere», «Come descriverebbe la sua giornata lavorativa», «Le è mai capitato il blocco dello scrittore», «Come riesce a conciliare la scrittura con la famiglia». Nevo, o per meglio dire il personaggio-Nevo – in piena impasse creativa, familiare, generazionale – decide, contro ogni deontologia e buonsenso, di fornire risposte lunghe, dettagliate, sincere, talvolta del tutto inappropriate o fuori luogo.

Ah, le crisi di mezza età. Che autentico giacimento petrolifero. Non fa certo eccezione quella in cui è invischiato il personaggio Eshkol Nevo de L’ultima intervista. Qualcosa si sta spezzando. Scricchiolii e spifferi giungono da ogni dove. Per rivitalizzare il suo matrimonio non ha trovato di meglio che confessare a Dikla, la moglie, un adulterio. Intanto la figlia maggiore è andata via di casa a studiare in un kibbutz. Ari, il suo migliore amico, è in fin di vita dopo una lunga malattia. Ce n’è un altro di amico, un certo Hagai Carmeli, che se l’è svignata molti anni prima per debiti: non c’è Paese visitato per lavoro o diporto in cui Nevo non lo cerchi tra la folla. Come se non bastasse, il nostro povero scrittore è affetto da una grave «distimia», un disturbo dell’umore parecchio fastidioso: «In parole povere: un tempo mi alzavo felice e oggi mi alzo triste. Non sono certo di sapere il perché, né ho idea di come uscirne. Non sono neanche certo di quanto tempo Dikla potrà resistere. Ultimamente sento che mi tiene alla larga. Forse ha paura di un contagio».
Insomma, come si vede, Nevo è talmente in forma da non avere alcun ritegno a servirci uno dopo l’altro i piatti della casa: crisi coniugali, sodalizi virili al capolinea, padri e figlie, traslochi, ricordi della vita militare, viaggi lontani, il sesso, la tenerezza e tanta ma tanta nostalgia. «Fin da piccolo ho sofferto di nostalgia perenne. Non mi era ancora morto nessuno, ma cambiavamo casa di continuo. Ogni estate salutavo i vecchi amici e ogni autunno dovevo trovarne di nuovi. Non sono sicuro che sia questa la ragione per cui soffrivo di nostalgia perenne. Forse si nasce così, ci sono bambini a zig-zag, come nel titolo di David Grossman, e bambini nostalgia».

Tutto questo ben di dio prende forma e corpo grazie al formidabile escamotage meta-narrativo. Il risultato è il romanzo che tutti vorremmo scrivere: un romanzo che non sembra un romanzo e che in virtù di questo è più romanzo di un romanzo. Come nella migliore tradizione del genere, il personaggio Eshkol Nevo somiglia molto a uno dei tanti eroi dello scrittore Eshkol Nevo. È tenero, imbranato, ironico, fricchettone, perfido, quasi mai all’altezza delle prove inflitte dalla vita. Se la fa con donne migliori di lui. Ha sempre zaino in spalla e sandali ai piedi. S’innamora ogni due per tre. La sua capacità di dare voce alle voci degli altri ha qualcosa di sovrannaturale.
Temo di essere un lettore troppo scafato per stare lì a chiedermi dove i dati reali cedano il passo a quelli fittizi. Per certi versi questo libro mi ha ricordato il mirabile Lunar Park di Bret Easton Ellis. C’è la stessa impudicizia speciosa e un accumulo di aneddoti autobiografici che qualora fossero veri farebbero arrabbiare troppe persone. Del resto, affinché a nessuno venga in mente di rubargli l’idea, occorre dire che il marchingegno funziona perché a utilizzarlo è un romanziere di lungo corso che può vantare un bel po’ di lettori, non solo nel suo Paese.
Inoltre, Nevo sembra la persona giusta per trarre il meglio da questa bizzarra struttura romanzesca. L’endemica spigliatezza che anni fa notai di persona gli consente di portarci a spasso nel tempo e nello spazio con magnifico agio. La frammentarietà dell’impianto, invece, gli permette di aprire parentesi strabilianti. Tanto per dire, la cronaca della visita presso gli ebrei ortodossi asserragliati nell’insediamento Al’Ale Meir dietro la Linea Verde è un racconto portentoso.
L’ultima intervista è il romanzo dei romanzi di Nevo. Il lettore lo sente sin dalle prime battute, e non deve fare neppure la fatica di entrare in una vicenda inventata. Ci sono le coppie in crisi di Nostalgia, il cameratismo competitivo de La simmetria dei desideri, lo smarrimento di Soli e perduti e Tre piani. Nevo gioca con i suoi anonimi intervistatori come il gatto con il topo, usa le loro stupide curiosità per togliersi sassolini dalla scarpe e per rilanciare. Pian piano l’intervistatore impazzisce; pian piano smette di stare al gioco delle convenzioni mondane; pian piano confessa l’inconfessabile.
Il resto non ve lo racconto. Il resto è il romanzo, uno dei migliori che Nevo abbia scritto fin qui. Il suo capolavoro? Lascerei certi paroloni agli uffici stampa o ai posteri. Di certo si tratta di una performance eccitante compiuta da uno degli scrittori più talentuosi e felici della mia generazione.