Il Messaggero, 18 ottobre 2019
Prada, il fascino della bruttezza
«La bruttezza è attraente, la bruttezza è eccitante. Forse perché è più nuova. La ricerca della bruttezza per me è molto più interessante dell’idea borghese della bellezza. Perché? Perché la bruttezza è umana, riguarda il lato peggiore e sporco della gente». È in una rivendicazione di stampo filosofico, ribadita più volte negli anni, il primo fondamento della moda di Miuccia Prada, stilista del brutto dunque ma come espressione alta di eleganza e, più ancora di fascino. Ideatrice del mood poi ribattezzato dai media ugly chic, Prada ha rivoluzionato i canoni estetici della modernità, imponendo, di passerella in passerella, una riflessione sull’immagine della donna e sull’iconografia della desiderabilità.
L’EVOLUZIONE
A ripercorrere trent’anni di collezioni, dal 1988 a oggi, è il volume Prada. Sfilate, prima antologia delle collezioni pret-à-porter della griffe, L’Ippocampo edizioni, in libreria dal 23 ottobre. Dotato di un ricco corredo iconografico – oltre 1300 foto – il libro, con testi a cura di Susannah Frankel, permette di indagare l’evoluzione dello stile del brand e, da qui, i cambiamenti portati nel settore. La moda Prada vede il trionfo del marrone, («il colore meno commerciale che ci sia», dirà Miuccia), gli inusitati accostamenti di tinte come senape e viola, i rimandi alle uniformi militari, scolastiche e mediche, i richiami alla moda maschile. E ancora, le gonne al ginocchio, le linee che spesso nascondono le forme invece di esaltarle, le scarpe pesanti, i sandali portati con calze al ginocchio e così via.
«Miuccia Prada – spiega Frankel – ha cambiato il modo in cui il mondo considera la moda e l’ha fatto senza cristallizzarsi sul singolo look, ma reinventandosi di continuo, tanto da costringere le altre maison a correre per stare al passo con la sua». La stilista introduce il brutto in un contesto, la moda, in cui non esisteva per definizione, imposizione e vocazione. Il bello, motore del mercato, era gabbia di una domanda di fatto imposta, costruita su canoni precisi. L’ingresso della bruttezza nel settore segna una rivoluzione. Si può essere brutte, sembrano dire i look, anzi forse si deve. Perché bruttezza significa libertà dai modelli definiti, ribellione agli stereotipi, espressione di personalità. Il bello si contempla, il brutto scuote l’animo. Alla femminilità costruita a tavolino, spesso da uomini, Prada contrappone così l’autonomia della donna.
Miuccia raggiunge il vertice dell’azienda di famiglia nel 1979: «La società italiana era ossessionata dal consumismo, mentre io sognavo giustizia, uguaglianza e una rinascita morale». Dopo l’esordio negli accessori, le sue prime sfilate nel 1988 presentano creazioni di taglio maschile, sobrie. Una risposta all’edonismo anni 80. Unica concessione è l’ombelico scoperto, che poi ricorrerà negli anni. «Il suo famoso zainetto in nylon, privo di logo nella prima versione – commenta Frankel – si impone al pubblico come la It Bag meno appariscente della storia, aprendo così la strada al minimalismo degli anni a venire e al dibattito sul concetto di status nella moda».
IL LUSSO
Negli anni 90, l’austerità domina. Il lusso rimane ma si nasconde in materiali pregiati per abiti in apparenza dimessi. Sulla collezione primavera/estate 1991, Women’s Wear Daily scrive: «I Flintstones incontrano i Jetson». Prada ne è felice. L’anno dopo è quello delle culotte a vista sotto i baby doll: non un vezzo civettuolo, ma un modo per deridere il sistema e le sue fantasie. Nell’autunno/inverno 94-95 presenta capi ispirati alla Germania in tempo di guerra. Dopo, anima il dibattito con lo chic clinico. Del ’96, la definizione ugly chic, che non le piace. «Tendo ad avere buon gusto e quando faccio cose brutte è per scelta», dichiarerà nel 2003. «Voleva elevare la banalità», afferma Frankel». Nel ’98 esplora l’imperfezione. Il nuovo millennio vede reggiseno sugli abiti e linee ampie che paiono voler nascondere il corpo. Dare alla donna la libertà del brutto non significa costringerla in nuovi canoni. Se deve poter essere tutto, di tutto deve poter indossare.