La Stampa, 18 ottobre 2019
Storia della risata
«In principio era il Verbo» e «Dio era il Verbo»: così inizia il Vangelo di Giovanni. Inoltre, «tutto fu fatto per mezzo del Verbo», il quale «era la vita, e la vita era la luce degli uomini». Al Verbo (in latino verbum; in greco lógos) si deve dunque la creazione del mondo. Con questo inizio assistiamo a un duplice movimento: da un lato una potente divinizzazione della parola e dall’altro la divinità viene intesa sulla base del linguaggio, un principio tipicamente, profondamente umano.
Ciò che qualifica l’umanità non è però soltanto il linguaggio: si pensi alla stazione eretta e alla locomozione bipede, all’uso delle mani, al trattamento del corpo come oggetto estetico, alla danza, al canto, al riso, al pianto. Da quel grande osservatore che era, Aristotele afferma che «tra tutti gli animali soltanto l’uomo ride» – tesi che troviamo ripetuta da Porfirio nel III secolo dopo Cristo e da Rabelais nel Cinquecento, per i quali il riso è il «proprio» dell’uomo. Ma, rispetto al linguaggio, il riso non è forse qualcosa di assai meno importante, superfluo, forse addirittura dannoso? Nel pensiero biblico e poi nella tradizione cristiana – specialmente nei primi secoli – assistiamo in effetti a una svalutazione del riso: san Girolamo, per esempio, si spingeva ad affermare che «risus dissolvit mentem». Eppure, se il riso è qualcosa di universalmente ed esclusivamente umano, come possiamo degradarlo in questa maniera?
In un libro pubblicato da Einaudi nel 1988 (Sorriso e riso), Fabio Ceccarelli sosteneva l’importanza evolutiva del riso come fattore di grande socializzazione: si ride sempre con qualcuno e si ride sempre di qualcun altro. Unitamente al sorriso, il riso dà luogo a una comunità di «co-ridenti», che sono anche un «gruppo di pari»: il riso – così universale – è perciò un meccanismo socializzante ed equalizzante, di cui gli esseri umani non possono fare a meno. Insieme al linguaggio, a cui è strettamente connesso, il riso si pone dunque al principio dell’umanità, per cui potremmo davvero dire che «in principio vi è anche il riso, non solo il verbo!».
Gli gnostici, definiti come gli enfants terribles dei primi secoli del cristianesimo, hanno fatto del ridere il principio fondamentale della loro teologia. Se il Vangelo di Giovanni inizia dicendo che «in principio era il verbo», un papiro del III secolo dopo Cristo attribuisce invece alle sette risate consecutive della divinità suprema la creazione del mondo: «quand’egli scoppiò a ridere, apparve la luce e rischiarò tutto». Il riso – in questo caso un riso assoluto, autoreferenziale, non motivato da qualcosa di contingente – esprime una forza creativa rischiarante.
Con tutte le occasioni in cui il pensiero gnostico dimostra la sua netta propensione a ridere in ambito teologico, esso si colloca nel grande novero di quelle che possiamo chiamare le joking religions, le religioni cioè che avvolgono in un’atmosfera di scherzo le figure divine: a parte i tre monoteismi abramitici, queste religioni sono davvero molte, e sono molte le religioni che appunto situano il ridere all’origine del mondo o dell’umanità. Come non ricordare, a questo proposito, Amaterasu, la dea del sole dello shintoismo, la quale, rifugiatasi in una grotta perché insidiata dal fratello, fa sì che cali il buio su tutti gli esseri, e soltanto con le grandi risate degli altri dèi è indotta infine a uscire dalla grotta e riaccendere la luce nel mondo?
Un’altra delle molte joking religions, che collocano il ridere alle origini, si pone giustamente la seguente domanda: che ha da ridere la divinità? Spostiamoci in Africa, tra i coltivatori Bwa del Mali, secondo i quali il dio supremo – un dio che si è autocreato – si annoia tremendamente nella sua solitudine e così genera gli esseri umani per potersi divertire e ridere di loro, delle loro disgrazie, dei loro difetti, delle loro continue zuffe. «Tutta la creazione», dicono i Bwa, «non è altro che un gioco» nelle mani di Dio, ma il Dio che così si diverte – essi affermano – «non sa neppure che è Dio».
Perché i Bwa affermano una cosa tanto grave e sconvolgente? Perché, a pensarci bene, sono essi che raccontano di questo Dio (non è Dio che si rivela). È vero che gli uomini sono degli zimbelli nelle sue mani ed è Dio che ride di loro; ma è anche vero che questo racconto fa ridere, fa volutamente ridere coloro che lo recitano e coloro che lo ascoltano. E così il rapporto si rovescia: in effetti, sono gli uomini che, ridendo, inventano un dio che ride di loro. Al principio c’è pur sempre un ridere: ma si tratta del riso degli uomini, ben prima del riso che viene attribuito agli dèi.