Quando è nata questa chat?
«L’anno scorso, ho voluto aprire un gruppo per mandare sticker e "meme", le immagini con testo e battute sopra, per scherzare di tutto e tutti. All’inizio aveva tutt’altro scopo, solo far incontrare gente e fare ironia. Dopo invece i contenuti sono cambiati e mi facevano ribrezzo, ma non ne sono uscito per pigrizia».
Come è venuta l’idea?
«Da una pagina Instagram di black humor di un mio amico. Ho preso questo argomento e l’ho spostato su WhatsApp perché la gente con la stessa passione si potesse incontrare. Non mi aspettavo degenerasse così».
Quindi un’idea condivisa?
«Mia e del mio compagno di classe.
Vedendo che la pagina aveva avuto molti follower, più di mille in un mese, spesso ci veniva chiesto dagli utenti stessi di aprire il gruppo su WhatsApp. Ho fatto un sondaggio e con il mio amico l’ho creato e ho messo anche lui amministratore. Ho pubblicato il link e ho scritto: "questo è il nome del gruppo, entrate e fate battute"».
Nessuna limitazione?
«Non le ho messe: chiunque poteva entrare, di qualunque età».
Che ruolo ha l’amministratore?
«Non pensavo che mi avrebbe comportato responsabilità. Ho sempre pensato che sui social network e su Internet ognuno sia responsabile per ciò che scrive.
Inizialmente scrivevo anche io e facevo battute, ma poi ho abbandonato a se stesso il gruppo».
Quando hanno cominciato a mandare i file illegali?
«Dopo un po’, non subito. Ma il mio errore è stato quello di cancellare i file dal mio telefono e di non uscire».
Ma come amministratore non si
possono cancellare?
«No, solo chi manda il file può farlo.
Io potevo soltanto buttare fuori la gente o nominare amministratori altre persone. Ma pensavo che l’unico problema fosse che quelle immagini fossero sul mio telefono: così facevo con tutto quello che era violento o non di mio gusto, cancellavo immediatamente. Mi turbava, lo tiravo via con il dito».
Ma i tuoi genitori non controllavano?
«Ogni tanto, senza accorgersi di niente. Ho il cellularedalle medie: ci faccio i compiti, le ricerche. A me interessa la fisica quantistica, guardavo lì le risposte alle mie domande».
Vi conoscevate nella chat?
«No, c’erano nick name. A parte il mio amico non conoscevo nessuno».
C’erano video tremendi: come funzionava?
«Sì c’erano, lo so. Una volta un utente mi ha chiesto di avere uno, ma io l’ho ignorato, pensando non fosse mia responsabilità. Ognuno metteva un’immagine: erano quasi gare di sticker, uno ne metteva 100 e un altro metteva su qualsiasi cosa solo per riempire la chat».
Quanti messaggi al giorno?
«C’erano giorni che arrivavo da scuola e ne trovavo 600, arrivavo a 2.000 notifiche. Mi dicevo: "si sono dati da fare!", ma cancellavo, non guardavo tutto: era una roba assurda. Io ho Internet solo a casa, se ero fuori non potevo vederle».
Oltre a pedopornografia, c’erano anche battute orrende — lo stesso nome del gruppo lo è — con una connotazione politica estrema: era un’ideologia condivisa?
«Mi piace sdrammatizzare sulle cose, anche sul nazismo e simili, io prendevo tutto in giro, ma non è questa la mia ideologia. Io non sono razzista, ne ho passate tante da piccolo, sono stato discriminato per l’origine della mia famiglia: l’ironia mi serviva per ironizzare anche su me stesso. Preferivo prendere in giro la situazione indipendentemente dall’argomento e dal contesto».
Il primo pensiero davanti ai carabinieri?
«Cosa ho fatto? Non ho collegato. Poi hanno pronunciato quella parola: pedopornografia, ho capito. Ho letto le accuse: mi sono sentito svenire. Da allora non dormo la notte, ho vomitato per l’ansia. Sono pentito, so che ho sbagliato: ora andrò dallo psicologo, starò lontano per un po’ dal cellulare e per sempre dalle chat».