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 2019  ottobre 17 Giovedì calendario

I conti di Cir. Ecco perché De Benedetti rivuole Repubblica

Non si può scrutare Gedi senza alzare lo sguardo verso l’alto, verso la controllante Cir. È ai piani alti che si capisce la sostanza della violenta e inusitata querelle familiare che vede opposti il patriarca Carlo De Benedetti e i figli Rodolfo e Marco. Entrambi i duellanti sanno perfettamente che per Cir esiste una soglia limite che è stata sfondata pesantemente al ribasso ormai da quasi 5 anni, dalla primavera del 2015 quando il titolo Gedi (l’ex Espresso) lasciò per sempre quota 1,23 euro, senza riacciuffarla. Ma cosa rappresenta? È il valore per azione di carico della partecipazione di Gedi nella holding di famiglia, la Cir appunto, che ne detiene oggi il 43,7%.
Per Cir, ancora alla fine del 2018, il gruppo editoriale continua a prezzare 1,23 euro per azione, per un valore della quota di ben 273 milioni. Ma la realtà dovrebbe riportare la famiglia con i piedi per terra. Gedi, che prima dell’offerta di Carlo De Benedetti valeva solo 25 centesimi, dovrebbe fare un balzo avanti in Borsa di quasi il 400 per cento per ridare vita a quella quota che oggi, stando al verdetto della Borsa, vale sul mercato poco più di 55 milioni. Lo scatto in avanti dopo il coup de théâtre dell’Ingegnere di qualche giorno fa (ovvero l’offerta d’acquisto, rifiutata, del 29,9 per cento di Gedi dai figli) non colma e non potrà mai colmare il fossato abissale.
Cir, di cui Carlo Del Benedetti è presidente onorario con Rodolfo presidente, ha sul gobbone ormai da troppi anni una minusvalenza potenziale che supera i 200 milioni e non sarà mai colmabile del tutto, né con un rilancio di Gedi, come sostiene l’ingegner De Benedetti, né con una vendita come da tempo cercano di fare i figli. Il nervosismo in famiglia, tale da rendersi pubblico in forme così esplicite, si spiega solo così. Ma Gedi come Cir sono di fatto in un cul de sac, in un angolo. Da un lato, tenerla vorrebbe dire non affrontare il tema della svalutazione nella casa madre e contare su un recupero che l’andamento sempre meno redditizio dei conti non fa intravedere. Dall’altro, però, vendere significherebbe smettere di puntare su un business calante con la consapevolezza però che nessuno arriverà mai a offrire quei soldi. Un premio per il controllo, infatti, in genere è del 30% sui prezzi di Borsa. Un premio per il controllo, infatti, in genere è del 30% sui prezzi di Borsa. Fosse anche il 50%, non si andrebbe oltre i 37 centesimi, la cifra che avevano in mente Cattaneo e Marsaglia prima che tutto naufragasse, non si sa se per volontà dei compratori o per diniego dei fratelli De Benedetti. Vendere, inoltre, vuol dire anche far emergere il buco nascosto nei conti e ferire la Cir. Perciò tutto sembra senza via d’uscita. Tra l’altro, tutto avviene nel momento congiunturale più difficile per Gedi.
Nel 2017 c’è stata la prima perdita da 123 milioni (dovuta, a dir il vero, all’onere da 140 milioni della conclusione della lunghissima lite fiscale del ’91); nel 2018 la seconda perdita, questa sì legata solo al business, per 32 milioni. Soprattutto, per il mercato conta la caduta sia dei ricavi sia, più grave, della marginalità del gruppo.
Il fatturato del semestre 2019 è sotto del 6 per cento sui dodici mesi, a quota 302 milioni; il margine lordo è precipitato a 13 milioni dai 22 milioni di un anno prima e vale poco meno del 5% dei ricavi. L’utile operativo è sceso a 4,3 milioni da 12,6 dei primi sei mesi del 2018. E questo pur con l’incorporazione – a metà del 2017 – de La Stampa e del Secolo XIX. Nel 2018 il fatturato è sì aumentato ma i costi di più, tanto che è calata la redditività. E adesso anche i ricavi cominciano a flettere nonostante l’operazione di fusione.
Ed è proprio la corazzata di casa, con l’Espresso a trascinare al ribasso la profittabilità del gruppo. Nel 2018 il margine lordo della divisione Repubblica è diventato negativo per 7 milioni su 253 milioni di fatturato. Si perdono soldi già a livello operativo. Un tracollo che neanche i gioielli della Corona, le radio, riescono a compensare: qui la marginalità arriva al 30 per cento dei ricavi, ma il fatturato pesa solo per il 10 per cento del totale del gruppo. Altra divisione che mantiene buoni numeri è quella dei giornali locali, affiancati ora proprio dalle due testate storiche del Nord-Ovest. Fanno 250 milioni di ricavi, come Repubblica e l’Espresso, ma hanno un Mol, un margine operativo lordo, al 10 per cento. Vista così, la soluzione più logica sarebbe scorporare in una bad company l’ex regina simbolica del gruppo, proprio La Repubblica con L’Espresso, così che la parte buona (radio e testate locali) possa valorizzarsi. Ma impossibile a farsi. Troppo alto il valore simbolico di Repubblica per privarsene. Ma così Gedi continuerà nel suo lento declino, con buona pace di De Benedetti il cui piano proposto è quello di far confluire Repubblica sotto una fondazione, a cui parteciperebbero “rappresentanti dei giornalisti, dirigenti del gruppo, personalità della cultura che sostenga la libera informazione” ha detto al Corriere.