la Repubblica, 17 ottobre 2019
Un documentario sul’Ermitage con Toni Servillo
Chi ci accompagna sullo schermo nello splendore imperiale dell’Ermitage è Toni Servillo, che questa volta pare quasi un detective tipo Humphrey Bogart, dentro un lungo cappotto nero e Borsalino nero piegato sullo sguardo, per indagare non solo sull’arte di van Dyck, Poussin o Raffaello, ma anche su come queste opere sublimi arrivarono nella lontana, gelida, un tempo inabitata terra delle steppe e delle paludi dove il fiume Neva sfocia nel Mar Baltico: e dove il crudelissimo, visionario, irriducibile zar Pietro I il Grande aveva deciso di costruire la sua capitale verso l’Europa posando la prima pietra nel 1703.
Ci vollero 70 anni e 100 mila morti sul lavoro perché dal nulla nascesse San Pietroburgo, una città di bellezza barocca e neoclassica che Dostoevskij definisce «la più astratta e premeditata del mondo», mentre per Renzo Piano, nel labirinto sontuoso dell’Ermitage «è facile smarrire il senso dello spazio e del tempo». Forse, in questo documentario Ermitage. Il Potere dell’Arte diretto da Michele Mally (nelle sale il 21, 22 e 23 ottobre), ripercorrendo con Toni Servillo, si resta anche abbacinati dal confronto tra 60 mila opere esposte (su tre milioni nei depositi oggi, per altro, visitabili) con la superba, cieca, tragica storia della dinastia Romanov, delle invasioni della terra russa, della rivoluzione d’ottobre, del comunismo, della dannata seconda guerra mondiale. La prima opera d’arte che arriva nella collezione degli zar la compra lo stesso Pietro I ad Amsterdam ed è un Rembrandt, a cui aggiunge altre 200 opere di collezioni europee, tra guerre e stragi, due mogli e quindici figli (Servillo non ci informa che l’epico personaggio era alto più di due metri e aveva genitali piccolissimi).
Assieme a direttori di musei, curatrici di dipartimenti, storici dell’arte russi e stranieri e lo storico inglese Orlando Figes (di cui Mondadori ha appena pubblicato Gli europei), Servillo conduce lo spettatore nella magnificenza dei tanti edifici che compongono il museo diretto da Mikhail Piotrovskij il cui nucleo centrale è l’abbacinante Palazzo d’Inverno, residenza dei Romanov sino al 25 ottobre del 1917, quando i bolscevichi lo conquistano: vediamo le fotografie dello zar Nicola II e della sua famiglia, moglie, figlioletto emofiliaco e quattro bellissime figlie, che mesi dopo verranno giustiziati, assieme al medico, alla governante e a due cani. Scalinate senza fine, spazi monumentali, pareti candide cariche di fregi, colonne marmoree, statue di granito, decorazioni d’oro, affreschi, il tutto risultato di una sfrenata ricchezza che sfiorava la nobiltà ma non la popolazione del tutto ignorata, non i servi della gleba, più di 50 milioni di schiavi, liberati solo nel 1862. In due secoli il palazzo imperiale si riempie d’arte europea e, il documentario ribadisce più volte, sempre acquistata a qualsiasi prezzo, mai ottenuta illegalmente. La quindicenne tedesca che sposa il futuro zar Pietro III da lei definito «idiota, ubriacone, e buono a nulla» lo fa abdicare e diventa la celeberrima imperatrice Caterina II nel 1762: governa e impazzisce per la cultura, acquista la biblioteca privata di Voltaire e di Diderot suo consigliere, e intere collezioni d’arte, che Servillo descrive, i Guido Reni, i Tiepolo, i Rubens, i Giorgione, e fa riprodurre le logge di Raffaello in Vaticano nelle sue stanze. È ingorda anche di uomini, la storia ne ha contati 21, forse oggi una quisquiglia, ma non è detto. Il museo conserva sue lettere appassionate, e Servillo ne legge una, porcellona, a Grigory Potemkin: «Non c’è nulla del mio corpo che non sia teso verso di voi…Vi ringrazio del godimento di ieri. Il mio piccolo Grisa mi ha nutrito e spento la mia sete, ma non con vino…».
Il mondo cambia, si estendono le ribellioni ma gli zar neanche le immaginano, se guardano oltre i confini è sempre per amore dell’arte: Alessandro I compra la collezione Giustiniani col solo Caravaggio del museo ma nel 1812 è Napoleone con 700 mila uomini a invadere la Russia e a finire sconfitto: Alessandro I compra la collezione di Giuseppina Bonaparte con capolavori di Canova, e poi chiama un pittore inglese perché ritragga i 332 generali della vittoria. Le cinque tele di Tiziano le compra Nicola I con l’intera collezione di palazzo Barbarigo, ma è sordo al sentimento sempre più diffuso di ribellione allo zarismo. Sarà Alessandro II nel 1881, al sesto attentato, a perdere la vita. Aleksandr Sokurov nel 2002 dirige Arca russa in una sola sequenza, quasi un volo lungo l’Ermitage, per raccontarne la storia; opere d’arte e balli di corte, trame dinastiche e letterati.
È lui a ricordare, a Servillo e a tutti noi, l’eroismo, il sacrificio, la resistenza dell’amata città che dal 1924 si chiama Leningrado (per tornare poi San Pietroburgo) quando, nei 900 giorni dell’assedio nazista, la popolazione si riduce da quattro milioni a poco più della metà: «La gente sapeva che l’Ermitage andava preservato. E ha perso la vita qui, tra queste mura: centinaia di persone. I lavoratori dell’Ermitage sono morti qui. Per la fame o congelati. Questa città, questo museo possiedono un valore terribile».
Nei primi decenni dell’Unione Sovietica un migliaio di opere dell’Ermitage viene venduto per costruire trattori, ma persino Stalin si preoccupa del museo e nel 1948 gli fa arrivare due straordinarie collezioni confiscate a due ricchi mercanti moscoviti che a Parigi avevano acquistato i Matisse e i Gauguin, i Renoir e i Picasso, i Monet e i Cézanne.
Ma non bastava a cancellare come la delusione del comunismo avesse avuto i suoi martiri anche tra i poeti: Majakovskij e Marina Cvetaeva si suicidano, Osip Mandel’stam muore in un gulag, Sergej Esenin si impicca a trent’anni nel 1925, lasciando scritto: «Non rattristarti e niente malinconia sulle ciglia: morire in questa vita non è nuovo, ma di certo non lo è neppure vivere».