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 2019  ottobre 17 Giovedì calendario

Intervista al chirurgo che ha trapiantato le vertebre

Visto il mestiere, si potrebbe dire che Alessandro Gasbarrini, 52 anni, il chirurgo che per primo al mondo ha trapiantato le vertebre prelevate da un donatore, è un osso duro. O un fondista del bisturi capace di interventi come quello citato, eseguito all’ospedale ortopedico Rizzoli di Bologna, che lo ha impegnato per dodici ore. Tra una sala operatoria e l’altra si racconta. Appassionato di cavalli e di calcio, è figlio d’arte. Suo nonno Antonio fu archiatra pontificio e curò Pio XII e Giovanni XXIII, suo fratello è direttore del policlinico Gemelli di Roma e tutta la famiglia, sia da parte del padre Giovanni, anch’egli famoso gastroenterologo, che della madre è composta da medici.
Difficile che lei diventasse un architetto…
«In realtà all’inizio scelsi Economia per evitare il confronto con mio padre, ma poi capii che la medicina mi piaceva e di quel confronto me ne sono infischiato».
Lei è un professionista molto apprezzato che ha scelto la struttura pubblica anziché guadagnare di più in quella privata: la sua è una scelta etica?
«Non solo. Ci sono molti colleghi come me che guardano prima al bene del paziente più che al profitto. A parte questo, se uno vuol limitarsi a eseguire ciò che già si fa, sta nel privato, ma se vuole innovare e coltivare la ricerca deve scegliere il pubblico. Nel nostro Paese abbiamo realtà pubbliche e personale di altissimo livello».
Spesso il pubblico non è all’altezza…
«Quando sento di ospedali fatiscenti o con le formiche che girano penso che se io fossi in quelle realtà non avrei mai potuto fare ciò che ho fatto. Adesso si parla di me per questo intervento innovativo, ma io sono solo al volante di un’auto che non andrebbe da nessuna parte se non ci fossero anche altre componenti».
Intende il Rizzoli?
«Esattamente. Un ospedale dove si fa ricerca e dove sono presenti tutte le équipe necessarie per sperimentare strade nuove, a partire dalla banca del tessuto muscolo-scheletrico, essenziale per i trapianti».
Dunque la sua è una rinuncia al guadagno per la ricerca?
«Sono una di quelle persone che si sentono più appagate nel dare che nel ricevere. Presiedo una fondazione, la Probone Italia, che si occupa di assistere i pazienti in difficoltà. Ma in un certo senso io sono egoista in quanto faccio un lavoro che mi piace e mi dà soddisfazione».
C’entra molto la sua formazione cattolica?
«No, la malattia è trasversale. Non contano motivazioni religiose o politiche. Ho visto colleghi cattolici poco sensibili e altri atei dediti ai pazienti».
Com’è nata l’idea di trapiantare vertebre da un donatore anziché inserire protesi in titanio o carbonio come si è fatto finora?
«In realtà noi tutti i giorni affrontiamo problemi nuovi e adattiamo le tecniche alle esigenze peculiari del paziente. Nel privato non si potrebbe fare perché costerebbe troppo».
Ma qui le difficoltà erano altissime...
«Il problema era asportare le vertebre malate e rimettere quelle del donatore senza danneggiare il midollo. Finora inserivamo parti in titanio o stampavamo in 3D protesi di carbonio. In altri casi usavamo una parte del femore. Ci siamo detti: perché non provare con organi da donatore? È l’uovo di Colombo, no? Oltretutto costa meno. Anche il pubblico è attento ai conti. Inoltre cerchiamo di ricreare parti di scheletro in modo biologico. E qui torniamo alla ricerca: c’è un’ équipe di colleghi che la pratica».
Quindi l’intervento si potrà replicare in altri pazienti?
«Sì, ma ognuno ha esigenze particolari. L’uomo su cui siamo intervenuti forse avrebbe avuto bisogno di radioterapia dopo l’asportazione di un tumore e con le protesi al titanio non è possibile».
Il paziente era d’accordo nell’affrontare un intervento sperimentale?
«Sì, ed è importante che il paziente abbia fiducia, è già una parte della guarigione».