Corriere della Sera, 17 ottobre 2019
Dal libro di Ronan Farrow
Frugai tra i contatti del telefono e rimasi per un attimo indeciso se chiamare un numero che non sentivo da tempo.
«Sto andando a fare un’intervista» dissi a mia sorella Dylan.«A un’attrice famosa. Accusa una persona molto potente di un reato piuttosto grave». (…)
Al telefono, quel giorno di febbraio, rimase un attimo in silenzio. «E mi chiedi un consiglio?» disse infine. Le sue accuse e le domande che erano rimaste in sospeso tra noi in merito al mio aver fatto abbastanza, e averlo fatto in tempo, per sostenerla, avevano messo una distanza tra noi che nelle foto della nostra infanzia non c’era.
«Sì, ti chiedo un consiglio» dissi.
Sospirò. «Be’, questa è la parte peggiore. La massa di pensieri. L’attesa che la storia esca. Ma una volta uscita è tutto molto più facile. Dovresti dirle soltanto di tenere duro. È come strappare via un cerotto». «Se riesci a incastrarlo» aggiunse Dylan «non fartelo scappare, d’accordo?»
Nel frattempo, anche Weinstein stava dandosi da fare per conto suo. Mentre settembre lasciava il posto a ottobre, si rivolse alla figura chiave delle sue rivendicazioni su un possibile conflitto d’interesse. Chiese a una delle assistenti di fare la telefonata.
Su un set cinematografico di Central Park, un’altra assistente allungò il telefono a Woody Allen.
A Weinstein serviva un manuale d’istruzioni strategico, per respingere le accuse di molestie sessuali e per sapere come comportarsi con me.
«Come hai affrontato la faccenda?» chiese Weinstein a un certo punto. Chiese ad Allen di intercedere in qualche modo. Allen scartò immediatamente la proposta, ma ribatté che la sua esperienza poteva tornargli utile.
Quella settimana, le ricevute della carta di credito di Weinstein registrarono l’acquisto di un libro di interviste scritto da uno degli ammiratori incalliti di Allen, che documentava tutti gli argomenti schierati in campo da lui e dal suo esercito di investigatori privati e addetti stampa per infangare la credibilità di mia sorella, del pubblico ministero e di un giudice che aveva ipotizzato che la ragazza stesse dicendo la verità.
«Gesù, mi spiace davvero tanto» disse Allen a Weinstein al telefono. «Buona fortuna».
***
Quando i revisori cominciarono a chiamare le fonti a tappeto, Weinstein raddoppiò le minacce. Il primo lunedì di ottobre mandò al «New Yorker» la prima lettera dei suoi avvocati. (…) La lettera risentiva chiaramente della recente conversazione di Weinstein con Woody Allen. Harder (uno degli avvocati di Weinstein, ndr) dedicava diverse pagine all’argomentazione secondo cui l’aggressione sessuale ai danni di mia sorella mi rendeva inadatto a occuparmi di Weinstein. «Il signor Farrow ha diritto alla sua rabbia privata» scrisse Harder. «Ma nessun editore dovrebbe permettere che questi sentimenti personali creino e diano sostanza a un’inchiesta infondata e diffamatoria nata dalla sua animosità personale».
A qualche isolato di distanza, mi sedetti a una scrivania libera del «New Yorker» e chiamai la Weinstein Company per avere un commento. Il receptionist con cui parlai mi disse in tono nervoso che avrebbe controllato se Weinstein era disponibile.
Poi udii la familiare voce roca baritonale. «Wow!» disse con entusiasmo beffardo. «A cosa devo l’onore?» Il fiume di inchiostro scritto su di lui prima e dopo di rado si soffermava su questo aspetto: era piuttosto divertente. Ma era facile non accorgersene quando passava fulmineamente alla rabbia (…).
«Non sei riuscito a salvare una persona a cui volevi bene e adesso pensi di poter salvare tutti». Lo disse sul serio. Veniva da credere che stesse brandendo un detonatore contro Aquaman.
La prima volta che vidi mia sorella Dylan dopo l’uscita degli articoli, lei saltò in piedi e mi abbracciò. (…) Ripassai mentalmente immagini di Dylan e me (...) Ricordai mentre posizionavamo quei mitici re e draghi di peltro, e il risuonare di una voce adulta che la chiamava. L’espressione spaventata, terrorizzata. La sua richiesta: se mi succede qualcosa di brutto, verrai ad aiutarmi? E io che glielo promettevo. In campagna, con la figlia che ci sgambettava intorno, mi disse che era orgogliosa dell’inchiesta. Era grata. Sapeva che era stata dura. E qui le mancò la voce.
«Nessuna storia per te» dissi. Ogni volta che aveva raccontato la sua storia, da bambina e anche in seguito, aveva sempre avuto la sensazione che le persone si voltassero dall’altra parte. «Giusto» rispose lei. Per ogni storia raccontata, ce n’erano innumerevoli altre, come la sua, che non lo erano state.
Asia Argento incarnava, più di ogni altra fonte, un groviglio di contraddizioni. Dopo aver partecipato alla mia inchiesta, raggiunse un accordo economico con un attore, Jimmy Bennett, il quale sosteneva che Asia aveva fatto sesso con lui quando aveva diciassette anni. (...) la stampa sottolineò la contraddizione stridente fra l’uso di un accordo di riservatezza da parte dell’attrice e le sue accuse di essere vittima di uno che li impiegava d’abitudine.
Quest’ultima vicenda non ha alcun riflesso su una verità incontrovertibile: la storia di Asia Argento su Harvey Weinstein reggeva, corroborata da resoconti di testimoni oculari e di persone cui era stata riferita all’epoca. I perpetratori di abusi sessuali possono anche essere dei sopravvissuti. Ma questa idea ha poco credito in un ambiente dove ci si aspetta che le vittime siano dei santi, o altrimenti vengono liquidate come peccatori (…).
Nel corso delle telefonate di quell’autunno, Asia sembrava consapevole che la sua reputazione era troppo compromessa, che l’ambiente in Italia era troppo feroce perché lei potesse sopravvivere al processo. (...) Mentre l’attrice si dibatteva nell’indecisione, il suo compagno, lo chef Anthony Bourdain, intercedette più volte. Le disse di andare avanti, che ne valeva la pena, che avrebbe fatto la differenza. Argento decise di parlare pubblicamente.
***
Quella sera, mentre uscivo dal lavoro, Remnick mi chiamò per dirmi di essere stato contattato dal compagno di Asia Argento, Anthony Bourdain. In passato Bourdain aveva appoggiato l’intenzione di Asia di parlare, ma avvertii lo stesso un tuffo al cuore: spessissimo le donne che avevano deciso di tirarsi indietro lo avevano fatto per intervento di un marito, un fidanzato, un padre. Essere contattati da figure significative di rado era foriero di buone notizie. Ma tutte le regole hanno delle eccezioni: Bourdain aveva detto a Remnick che il comportamento predatorio di Weinstein era nauseante, che «tutti» lo avevano saputo per troppo tempo. «Non sono religioso» aveva scritto. «Ma prego che abbiate la forza per pubblicare questa storia».
(da “Predatori” di Ronan Farrow, Solferino editore)