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 2019  ottobre 17 Giovedì calendario

Intervista alla mamma che ha scoperto la chat dell’orrore

«Dirle che mi è crollato il mondo addosso non rende l’idea. Ero sconvolta dai due video pedopornografici, e lo ero ancora di più perché si trovavano sul telefonino di mio figlio tredicenne». Veronica parla con tono calmo e gentile, tradisce l’emozione solo dal modo in cui stringe la tazza di tè. Le dita delle mani sono quasi cianotiche per la tensione. Il suo nome è ovviamente di fantasia, mentre l’inferno che racconta è tutto reale. È lei la mamma che, a differenza delle altre, ha avuto il coraggio di denunciare tutto ai carabinieri del Reparto operativo di Siena. E ora rievoca quei momenti con lucidità e sollievo.
Quando è cominciato tutto?
«Lo scorso aprile. Ricordo quel pomeriggio con una precisione certosina. Da una decina di giorni non esaminavo il telefonino di Luigi (anche questo nome è fasullo, ndr). Avevo il pin perché con mio figlio c’è un rapporto di fiducia. È un accordo tra di noi: Luigi sa che può tenere il cellulare solo a patto che io lo possa controllare».
Perché?
«Perché il telefonino in mano a un minorenne può diventare una pistola che un ragazzino non è in grado di gestire in modo adeguato». 
Quel pomeriggio che cosa ha scoperto?
«Ha attirato subito la mia attenzione una chat, per via del nome, "The shoah party". Mi sembrava offensiva, e così l’ho aperta. E lì è incominciata la discesa nei gironi dell’inferno».
Per i video pedopornografici?
«Innanzitutto per quelli, certo. In uno ho visto due bambini, sotto i 10 anni, che avevano un rapporto omosessuale. Nell’altro un incontro a tre tra due maschietti di circa 10 anni e una bambina coetanea. Le immagini erano indescrivibili, mi creda. Non ci sono davvero parole adeguate per rendere l’orrore».
Ma c’erano anche foto o video inneggianti Hitler, Mussolini o i terroristi islamici?
«Sì c’era un po’ di tutto. Era tutta una violenza, un sopruso, una dominazione fisica e psicologica sul prossimo. Si trattasse di ebrei, malati, bambini».
Molti insulti quindi?
«Tantissimi. Basti dirle che ogni messaggio si apriva con una bestemmia».
E suo figlio come ha reagito? Come si è giustificato?
«Mi ha spiegato che era stato contattato via whatsapp da alcuni sconosciuti i quali lo avevano invitato ad entrare nella loro chat».
E perché ha accettato? 
«Mi ha riferito di averlo fatto perché quelle pressanti e continue richieste gli impallavano il cellulare e lui non poteva più usarlo per i giochi. Così mi ha detto, che non riusciva più a giocare con il telefonino e quindi ha acconsentito di entrare nella chat». 
Suo figlio non è rimasto turbato da quelle immagini e da quegli slogan che istigavano alla violenza e al razzismo? 
«Mi ha raccontato di aver aperto solo i primi due video che gli sono arrivati e di aver poi archiviato gli altri. Per lui era finita lì, tant’è che, pur sapendo che io ogni tanto, senza preavviso, gli monitoro il telefonino, non ha cancellato nulla. Inoltre lui non ha mai scritto niente e non appena io ho individuato la chat si è cancellato».
Lei aveva notato nella chat la presenza di alcuni compagni di scuola?
«Ne ho riconosciuti tre, ma non so se ve ne fossero altri».
E cosa ha fatto, prima di rivolgersi ai carabinieri?
«Ho scritto alle altre mamme nella chat di classe, avvertendole che su whatsapp giravano foto violente, razziste è pedopornografiche».
Che cosa le hanno risposto?
«Sono state molto fredde, indifferenti. Qualcuna ha ringraziato, qualcun’altra ha replicato che suo figlio non faceva quelle così lì e la discussione non è andata avanti».
Ma poi ha avuto occasione di confrontarsi con le mamme dei tre compagni riconosciuti in chat sulla necessità di rivolgersi alle forze dell’ordine?
«Nessuno ha voluto denunciare. Non so se per vergogna o cos’altro. Mio figlio in questa vicenda risulta un testimone, non è indagato. Ma io comunque non mi sarei fermata in ogni caso. Non solo perché ritengo che sia un dovere civile sporgere denuncia, ma anche perché non si può accettare che dei ragazzini divulghino oscenità e appelli in nome di Hitler o della Jihad. È assolutamente inconcepibile».
Eppure è drammaticamente successo.
«Infatti. Non so in che modo abbiano agito i giovani amministratori della chat e con quale assurdo passaparola quello scempio sia arrivato sul telefonino di mio figlio. Per fortuna la giustizia sta facendo il suo corso, ma credo sia molto importante la questione socio-culturale, il rapporto genitori-figli».
I ragazzini della chat appartengono a una classe sociale medio alta, hanno genitori laureati e liberi professionisti. Che cosa non ha funzionato secondo lei?
«Non mi permetto di guardare in casa d’altri. Ma i genitori devono fare i genitori e controllare i propri ragazzi».