Corriere della Sera, 16 ottobre 2019
Su "Il libro di tutti i libri" di Roberto Calasso (Adelphi)
Israele — leggiamo all’inizio del Libro di tutti i libri, di Roberto Calasso (Adelphi) — voleva un re «visibile», come lo avevano le altre nazioni. Samuele, il sacerdote, unse dunque Saul, ma a malincuore: il re visibile — pensava — è un male. A sua volta, Saul visse la regalità come una condanna: sentiva il peso della esecrazione di chi lo aveva unto, temeva di essere soppiantato da David, il pastore fulvo, giovane e bello, venuto da Betlemme. E lo stesso accadde a David: sentì l’odio di Saul (che pure lo amava, soprattutto quando suonava la cetra); sentì il peso delle ingiunzioni di Iahvè e quello dei suoi incomprensibili castighi; versò fiumi di sangue, sempre su ordine di Iahvè, e per questo gli fu impedito di edificare il Tempio. «La sovranità regale — scrive Calasso in questo suo libro, emozionante e imperdibile, che accompagna tutti i nove che lo precedono, e in particolare L’ardore, dedicato ai Veda e al sacrificio nella religione induista — giunse a Israele come una fosca necessità dovuta al corso dei tempi. Qualcosa di torbido, convulso e opaco accompagnò quel potere nel suo primo manifestarsi in Saul e David. Qualsiasi cosa facessero tendeva a produrre conseguenze funeste… Come se una incessante tempesta di vento avvolgesse la vita dei due primi re che avevano ricevuto l’unzione».
Soltanto con Salomone, il re sapiente che, unto all’età di undici anni, poté finalmente edificare il tempio progettato da David, questa tempesta sembrò per qualche tempo placarsi. Ma Salomone aveva un cuore «vasto come la sabbia che sta in riva al mare». Un cuore che capisce. Tutti chiedevano a Iahvè ricchezza, una vita lunga, vendetta. Lui, a Iahvè che gli diceva: «Chiedi ciò che devo donarti», aveva risposto: «Dai al tuo servitore un cuore che capisce». Quando l’Arca che conteneva le Tavole incise nel Sinai entrò nel Tempio, dopo le innumerevoli soste di un faticoso percorso, e venne messa «al suo posto nel Santuario della Casa, il Santo dei Santi, sotto le ali dei cherubini», la casa fu riempita interamente da una nube. Era la gloria di Dio. Dio (sempre, lo vedremo, nel racconto biblico) è nella nube. Invisibile. Gli esseri umani — osserva Calasso in uno dei punti centrali del Libro di tutti i libri — possono «dare forma» a una cella o articolare parole nelle quali la nube possa abitare «in una sua minima parte» (come la Torah che, sappiamo, si accontenta di una semplice stanza), e «tutto avviene fra la Nube e la Casa — e tutto ciò che accade ne è la conseguenza e la cronaca». Salomone lo capì, si inginocchiò, e fece l’unica domanda che in quel momento di stupore poteva rivolgere a Dio: «Veramente Dio abiterà sulla terra con l’uomo?». Dio, racconteranno i chassidim molti secoli più tardi, manda gli angeli alle finestre delle Case di preghiera per ascoltare le preghiere dell’uomo, e se le sente provenire dal cuore, scende sulla terra.
Ma «prima», prima del trionfale ingresso dell’Arca nel Tempio, prima che Israele, dopo la fuga dall’Egitto, entrasse nella storia e si installasse nella Terra promessa, cacciando chi vi abitava e sconfiggendo i suoi nemici, cos’era accaduto? A Ur, la città dei Caldei, un popolo abituato a scrutare gli astri, viveva un uomo il cui nome era Abramo. Un giorno, Dio disse ad Abramo: «Va’ via dal tuo paese, dalla tua patria e dalla casa di tuo padre verso il paese che ti mostrerò». Aggiunse: «Farò di te una grande nazione, ti benedirò e renderò grande il tuo nome». Qual era l’immensa novità proposta ad Abramo, oltre al fatto che doveva partire senza una destinazione — cosa che lui fece senza esitare, compiendo uno dei primi, più clamorosi atti di fede della vicenda umana? L’immensa novità stava nel distacco. Vattene. Vai via. Ma era davvero una novità, il distacco, o non era la ripetizione del distacco primordiale: quando Dio cacciò dall’Eden l’uomo che aveva creato a sua immagine e somiglianza?
Creando un essere a sua immagine e somiglianza, per il desiderio di «un altro»: di un essere visibile da amare, Elohim era stato il primo artefice degli idoli che poi avrebbe condannato ferocemente. Dopo averlo creato, gli disse: vattene, vai via da me. E qual era la colpa di Adamo? La colpa originaria che avrebbe trasmesso inesorabilmente a ciascuno dei suoi discendenti? Non era una colpa. Non era un peccato. Era la separazione. Una separazione dal Tutto per la quale avrebbero sofferto in modo indicibile non soltanto gli uomini, cercando in ogni modo, e invano, nella chiarezza e nell’oscurità, di riconquistare l’unità perduta, ma Dio stesso. Le pagine in cui Roberto Calasso mette il fuoco sulla disperazione di Dio, alla ricerca del suo popolo come un amante abbandonato, hanno slanci di vera commozione. Fino a questo momento, l’Autore ha seguito mimeticamente il linguaggio scabro, privo di abbellimenti della Bibbia: duro come le parole dei profeti che conoscono soltanto la deprecazione e la consolazione, e però conoscono a tratti «sporadiche oasi di inaudita dolcezza». Ora, narrando la sostanza di quell’amore, precipita in quella medesima dolcezza: «Iahvè gli aveva insegnato a camminare, come un’amorevole nutrice, ma forse il ricordo di quei momenti si era cancellato, nell’amnesia infantile. Una sorta di caligine poteva lasciare i giovinetti di Israele alla mercé di quegli altri, sopravvenuti, che li avrebbero portati via con sé. E Iahvè finiva per trovarsi nella situazione dell’amante abbandonato».
Abramo era un uomo qualunque: un nessuno. Fu il primo degli eletti, il primo a essere toccato dalla grazia, perché «la giustizia divina — osserva Calasso — non ha nulla a che vedere con la giustizia secolare. Non può essere altro che uno scambio di sovrappiù dall’invisibile verso l’invisibile». Questo spiega il motivo per il quale l’enigma del sacrificio, a cominciare da Caino e Abele e da Isacco, non ha mai avuto risposta. «Se la forma prima del sacrificio è l’olocausto — scrive Calasso — e se l’olocausto è un atto di omaggio che si esprime con un dono, la domanda irricevibile è: perché questo dono debba essere l’uccisione di un quadrupede maschio e perfetto. Era quella l’unica forma possibile di dono?».
La risposta provò a darla il profeta Osea trasmettendo il seguente messaggio divino: «Voglio la misericordia e non il sacrificio, la conoscenza di Dio e non gli olocausti». Che stava succedendo? Una incredibile rivoluzione? Otto secoli più tardi, Gesù riprese testualmente questa parole con una aggiunta. Disse: «Se sapeste che cosa è: voglio la misericordia e non il sacrificio, mai avreste condannato innocenti». L’innocenza e il sacrificio. Questo, dopo otto secoli, era il compimento della rivoluzione che avrebbe cambiato il mondo: il sacrificio del Figlio innocente. «La differenza invalicabile — scrive Calasso al termine di un libro nel quale la figura di Gesù è sempre stata presente: nel deserto, accanto a un pozzo — era quella fra il sangue dell’animale versato ogni giorno sull’altare, e il sangue del Dio versato una sola volta sulla croce». Egli riprende le parole di Giovanni Crisostomo: il nostro è un sacrificio inesauribile, e quotidiano, «perché noi offriamo la stessa persona, non un montone oggi, un altro domani». I cristiani, conclude Calasso, passano così dall’atto al ricordo. Un doppio ricordo: di un fatto singolo e databile — l’uccisione di Gesù sulla croce — e di una metamorfosi proclamata: il pane e il vino che diventano corpo e sangue di Cristo.