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 2019  ottobre 15 Martedì calendario

I giornali e i bilanci dei loro editori

C’è un convitato di pietra (che pesa) nascosto tra le pieghe dei bilanci dei gruppi editoriali italiani e che se ne sta lì dormiente, fino a che non si aprono le trattative per eventuali passaggi di proprietà. Allora quella voce nei libri contabili si fa sentire eccome. Strilla e stride con la realtà. Quella voce sono i valori che gli editori (tutti o quasi) attribuiscono alle loro testate. E la recentissima furiosa querelle familiare su Gedi non può che far emergere una realtà paradossale, al di là della disputa tra il patriarca Carlo De Benedetti e i figli Rodolfo e Marco.

INTANGIBLE ASSET E ANDAMENTO DEL BUSINESS: I CONTI IN TASCA A GEDI

Il gruppo Gedi ha tuttora a bilancio per oltre mezzo miliardo (557 milioni di euro per l’esattezza) le sue testate: da Repubblica, ai quotidiani locali, alle radio alla Stampa e il Secolo xix fino all’Espresso. Una cifra che vale ben la metà dell’intero attivo di bilancio. Una cifra che vista così cozza con la realtà dell’andamento economico; dei fatturati in costante declino; dei margini industriali e dei flussi di cassa che si erodono ogni anno che passa.

 
L’editoria è in crisi strutturale da quasi un decennio; le vendite delle copie cartacee si sono dimezzate e solo l’aumento generalizzato dei prezzi unitari delle copie ha reso meno brutale la caduta dei fatturati che pur hanno perso valori a doppia cifra; i margini si stanno comprimendo e ormai sono redditività da industria delle commodity. Eppure le testate sembrano non perdere mai valore. O meglio qualche ritocco è stato fatto, ma minimo.

Gedi, ad esempio, ha svalutato le sue testate per 21 milioni nel 2018 e prima ancora, secondo i dati di R&S Mediobanca, nel 2015 e nel 2014 quando le svalutazioni dei cosiddetti intangible cioè le poste immateriali (marchi e testate e frequenze) furono rispettivamente di 19 e 18 milioni. Per il resto poca roba, pochi milioni disseminati negli anni. E così si scopre (sempre dati R&S Mediobanca) che negli ultimi dieci anni, cioè nel pieno della crisi dell’editoria, il gruppo Gedi ha svalutato valori delle sue testate per “solo” 107 milioni. I suoi giornali e le frequenze radiofoniche erano iscritte a bilancio per 660 milioni nel 2008; dieci anni dopo valgono ancora oltre mezzo miliardo. Eppure nel decennio la crisi ha colpito duro. Anche Gedi.

  Basti pensare che il fatturato nel 2008 era di poco più di 1 miliardo, oggi supera di poco i 600 milioni. I margini di un gruppo, pur più profittevole dei suoi diretti concorrenti, si sono più che dimezzati: il margine lordo valeva il 15% dei ricavi e quello operativo superava il 10%: dieci anni dopo il Mol è a malapena al 5% e l’utile operativo nel primo semestre 2019 è a poco più dell’1% dei ricavi. La domanda non è oziosa. Se il business perde a rotta di collo e la capacità di generare margini e flussi di cassa si spegne lentamente come si fa a ritenere che le testate continuino a valere poco meno del 20% di un decennio prima?
Certo c’è sempre il perito indipendente terzo che giustifica o meno i valori, ma quando i soli valori di testate e marchi in chiara contrazione arrivano a contabilizzare oltre metà dell’intero attivo, qualcosa forse non torna. Non che Gedi viaggi isolata in questa tendenza a disconoscere il marcato calo del business e quindi dei giornali. Quasi tutti i gruppi editoriali tendono a sopravvalutare i loro giornali a dispetto della congiuntura drammatica che vede ogni anno cali del 10% degli introiti pubblicitari e delle copie effettivamente vendute.
INTANGIBLE ASSET E ANDAMENTO DEL BUSINESS: I CONTI IN TASCA A RCS
Rcs (sempre su dati R&S Mediobanca) aveva a bilancio le sue testate a fine 2018 per 369 milioni su un attivo di 880 milioni. Siamo al 41,8% dell’intero bilancio. Meglio di Gedi, ma comunque un valore sempre elevato. Certo Rcs con la cura Cairo ha recuperato molta redditività. La casa editrice di Corriere e Gazzetta e molto altro ha chiuso il semestre con un Mol rettificato poco sopra il 15% dei ricavi e un utile operativo al 12% del monte ricavi. Merito dell’efficienza gestionale per lo più, dato che il mercato è in flessione anche per Rcs.

 
I ricavi infatti sono scesi del 5% negli ultimi 12 mesi. Gli analisti del resto sanno che il trend dei ricavi è destinato a un lento inarrestabile declino. E solo l’accetta dei costi ha consentito di incamerare meno perdite del dovuto. La Borsa del resto non si fa illusioni. Gedi che è in carico a Cir a 1,2 euro per azione valeva prima dell’offerta “irricevibile” di Cdb 25 centesimi; Rcs, che pur è passata dalle perdite monstre cumulate dal salotto buono per oltre 1,3 miliardi dal 2009 al 2015 ai 190 milioni di utili realizzati dal 2016 da Cairo, ha perso in Borsa dalla primavera scorsa oltre il 30% del suo valore.
INTANGIBLE ASSET E ANDAMENTO DEL BUSINESS: I CONTI IN TASCA AL GRUPPO CALTAGIRONE
Tornando ai grandi gruppi anche Caltagirone, che pur tra tutti ha svalutato di più le sue testate per un valore di oltre 300 milioni nel decennio della Grande crisi della carta stampata, pensa che i suoi storici giornali valgano tuttora 200 milioni, il 37% dell’intero bilancio di Caltagirone editore. Eppure il conto economico dei giornali di uno degli uomini più liquidi d’Italia è una sfilza di segni rossi.

  Dal 2008 Caltagirone editore ha chiuso in utile un solo anno; per il resto le perdite nel decennio superano i 360 milioni di euro. Un bagno di sangue per un gruppo che ha più che dimezzato i ricavi in 10 anni. Però nonostante questo retroterra, i giornali del gruppo sono tenuti a bilancio per 200 milioni. Li varranno davvero? Certo, come il caso Gedi di questi giorni insegna, finchè ti autovaluti e non intendi vendere, puoi anche illuderti che i blasonati giornali valgano assai di più di quanto la lunga teoria di perdite lasci pensare.
Il guaio è che se intendi passare la mano allora il Re è nudo. Chi è interessato guarda quei valori irrealistici a bilancio e ci fa la tara. Del resto l’Ingegnere non ha dato peso al valore delle testate. Ha guardato solo il prezzo di Borsa che valorizzava Gedi prima della sua offerta intorno ai 130 milioni e lì si è fermato. Manca il premio per il controllo hanno reagito stizziti i figli.

 
Ma il vero premio come sanno tutti gli imprenditori che posseggono giornali è nel beneificio indiretto del controllo dell’informazione, più che nei magri e sempre più esigui dati di bilancio. Beneficio che può avere un prezzo elevatissimo. Forse è questa la ragione che vede l’editoria cartacea semi-morente sopravvalutare i suoi attivi. È il premio per poter influenzare l’opinione pubblica. Sempre che sia ancora vero, dato che le vendite crollano a rotta di collo.
MARCHI, IL CONFRONTO CON LA MODA E IL LUSSO
Tanto per capire la distanza siderale tra risultati economici e valori auto-assegnati, basta dare un’occhiata a un mondo che di marchi e di intangibile vive. La Moda e il lusso. Lì si che i marchi possono avere valori stratosferici ma forse più giustificati. Ebbene il paragone è ancora più disarmante. Il colosso Lvmh ha marchi che valgono solo il 20% del suo attivo di bilancio. Richemont le sue effigi le valorizza il 10% del bilancio. Moncler, per stare in casa nostra, assegna agli intangibili il 13% del suo attivo. Per loro però la marginalità industriale vale oltre il 20 se non 30% dei ricavi. Una distanza abissale di profittabilità con l’editoria. Eppure per gli editori italiani i loro giornali valgono più dei preziosi, dei gioielli. Una sonora auto-illusione ottica