il Fatto Quotidiano, 15 ottobre 2019
Ancora su De Benedetti e la guerra ai figli
Chissà se anche stavolta Carlo De Benedetti si è detto almeno tra sé, prima di iniziare questa guerricciola familiare attorno al corpo debilitato del quotidiano La Repubblica e del resto del gruppo Gedi, il suo celebre “sono venuto a suonare la fine della ricreazione”. Va detto che l’altra volta, era il 1988, non gli andò benissimo: la scalata alla Sociéte générale de Belgique fallì clamorosamente divenendo il suo “errore più grosso e penoso”, almeno “dal punto di vista patrimoniale”. E penoso lo fu davvero visto che, anni dopo, si portò dietro la fine ingloriosa della Olivetti dell’Ingegnere, azienda comprata vent’anni prima, quando posava da imprenditore illuminato invece che da speculatore principe nello stagno d’Italia. È la stessa Olivetti – sia detto en passant – per la quale finì nell’inchiesta Tangentopoli per aver pagato mazzette pur di ottenere un appalto da Poste Italiane.
La ricreazione è davvero finita, comunque, tanto più che l’ambizione dionisiaca della scalata al colosso belga si ripete oggi nella farsa dell’offerta sottocosto ai figli per l’azienda editoriale: 39 milioni scarsi per prendersi il 29,9% delle azioni in mano alla Cir (il 45% in tutto), la holding lasciata ai pargoli anni fa, imponendole – in caso di risposta positiva – una perdita a bilancio da centinaia di milioni.
Si misura anche così la distanza tra un’alba e un tramonto, quando una storia finanziaria importante e controversa in cui uguale parte hanno avuto la disinvoltura nel rapporto con le regole e il coraggio (“ma è sicuro che sia un buon consigliere quando si rischiano, oltre ai propri, i soldi degli altri?”, gli scrisse Enrico Cuccia) finisce nell’ennesimo battibecco a mezzo stampa del capitalismo familiare italiano.
C’è l’epopea dei Caprotti e di Esselunga; c’è l’insabbiatissima vicenda della denuncia di Margherita Agnelli a sua madre Marella per una storiaccia legata all’eredità dell’Avvocato; ci sono le difficili storie di successione, pur vissute con discrezione, di Silvio Berlusconi e Leonardo Del Vecchio e adesso ci sono anche i De Benedetti nell’album delle belle famiglie amorevoli dell’imprenditoria italiana.
“Sono profondamente amareggiato e sconcertato dall’iniziativa non sollecitata, né concordata presa da mio padre”, ha dichiarato domenica alle agenzie il primogenito Rodolfo. “Trovo bizzarre le dichiarazioni di mio figlio – ha replicato l’interessato – È la stessa persona che ha trattato la vendita del Gruppo Espresso a Cattaneo e Marsaglia. La gestione sua e di suo fratello Marco hanno determinato il crollo del valore dell’azienda e la mancanza di qualsiasi prospettiva, concentrandosi esclusivamente sulla ricerca di un compratore visto che non hanno né competenza, né passione per fare gli editori”.
L’opinione del patriarca sulle capacità imprenditoriale del frutto dei suoi lombi, oggi espresse sull’Ansa, non sono nemmeno del tutto una novità. Quando Sorgenia si ritrovò in pessime acque, sepolta sotto 2 miliardi di euro di debiti, il papà faceva sapere in giro che era stato il primogenito a spingere Cir a investire in quel modo nell’energia: la holding ne uscì comunque con pochi danni, scaricando l’onere sulle banche creditrici (compresa Mps che ci rimise 600 milioni). Nello stesso periodo De Benedetti, che rifiutava di mettere 150 milioni in Sorgenia, ne incassava 344 di risarcimento da Silvio Berlusconi per la sentenza comprata del lodo Mondadori.
E se non è una novità la sfiducia nei figli, non lo è nemmeno che il nostro – pur avendo negli ultimi dieci anni lasciato agli eredi prima le cariche e poi le quote della società di famiglia – esprima critiche feroci sulla loro gestione delle attività editoriali del gruppo. All’inizio del 2018, per dire, andò in tv a dire che la Repubblica di Mario Calabresi era, in sostanza, senza sapore: “Un giornale non è solo latte e miele; è carne, è sangue. Può avere curve, ma deve avere anche spigoli”. Peggio andò a Eugenio Scalfari, con cui si era scambiato qualche stilettata pubblica in quei giorni: “Un signore molto anziano che non è più in grado di sostenere domande e risposte. Gli ho dato un pacco di miliardi, è un ingrato”.
Rispose, e proprio su Repubblica, il secondogenito Marco, a cui il patriarca aveva ceduto sei mesi prima la carica di presidente dell’editoriale Gedi poco dopo la fusione tra gruppo Espresso, La Stampa (famiglia Agnelli) e Secolo XIX (Perrone): “Parole sbagliate. Confesso che le polemiche di questi giorni mi risultano tuttora incomprensibili. Non voglio pensare che ci abbia danneggiato in modo deliberato”. Per rafforzare il concetto a De Benedetti senior, che ancora oggi è presidente onorario di Gedi, fu tolto l’ufficio in Largo Fochetti.
Domenica, come detto, il nuovo “incomprensibile” capitolo con l’offerta sottocosto. “Se vuole rilanciare Repubblica non lo so, di sicuro vuol fare un buon affare”, ha detto all’Adnkronos l’ex direttore dell’Espresso Giovanni Valentini. Chissà, forse è solo l’epoca delle passioni tristi o il demone dell’ambizione e del senso di sé che non smette d’agitarsi nonostante il conto in banca e quello degli anni.
Che dire della vicenda della plusvalenza da 600mila euro sulle banche popolari realizzata a gennaio 2015 grazie a una soffiata di Matteo Renzi sull’imminente decreto di riforma? Alla Consob, che sospetta si tratti di insider trading, dirà: ma che volete che m’importi di un investimento di 6 milioni di euro su un totale di 620 milioni. Non gli importava, eppure la telefonata al broker per comprare azioni la fece. Certo, un tempo entrava e usciva con singolare capacità di guadagno e tempismo dal Banco Ambrosiano quasi decotto e oggi cincischia col piazzista di Rignano e tenta di incravattare i figli per tornare a giocare coi giornali: il sole è basso in entrambi i casi, ma un tramonto non è l’alba.