Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2019  ottobre 15 Martedì calendario

Pietro Chasseur, guru della grafica, a 89 anni è ancora docente all’Università di Parma. Ha insegnato anche a Steve Jobs

Quand’era primario del lebbrosario di Genova, Enrico Nunzi continuava in tarda età a insegnare all’università «perché chi sta in mezzo ai giovani resta giovane», mi disse. Dev’essere per questo motivo che il professor Pietro Chasseur, maestro di arti grafiche, alla veneranda età di 89 anni continua ad abitare dentro l’Istituto salesiano San Zeno di Verona e a dimostrare una vitalità straordinaria. In mezzo secolo d’insegnamento, ha formato non meno di 6.500 allievi, molti dei quali ora occupano posti di rilievo nelle aziende che compongono, stampano, riproducono, fotografano, comunicano, imballano. Una vertebra uscita di sede a seguito di una rovinosa caduta sulla neve lo rallenta un po’ nei movimenti quando si alza dalla poltrona e lo costringe ad appoggiarsi a un bastone: «I medici dicono che non dovrei camminare». Se soffre, non lo dà a vedere. Infatti sigilla ogni geniale affermazione che gli esce dalle labbra con una risata fragorosa, sicuro d’aver stupito l’interlocutore. Si è persino conformato all’abbigliamento degli adolescenti che affollano i corridoi della scuola di via Don Minzoni: felpa del National Geographic con vistoso colletto giallo, pantaloni neri della tuta Adidas, scarpe da jogging.Chasseur non ha altra famiglia che questa. Studia qui, mangia qui, dorme qui. È un laico consacrato dal 1948. Dopo un anno di noviziato, pronunciò i voti di povertà, castità e obbedienza nelle mani del rettor maggiore della congregazione salesiana. Lo incontro in un ufficio grande quanto un miniappartamento, in fondo a un corridoio interminabile di aule e laboratori didattici delimitati da vetrate anziché da muri. Il suo tavolo ha le dimensioni di sei scrivanie unite insieme. Vi troneggiano quattro monitor enormi e una stampante Epson di ultima generazione per fotografie, più un Mac portatile: «Dalle aziende mi sono sempre fatto pagare in tecnologia». Di fronte a sé, una stampante per documenti e un plotter. Sulle pareti, prove di stampa in quadricromia.
Nel suo campo è considerato un’autorità mondiale. Ha avuto modo d’incontrare più volte Steve Jobs, l’inventore della Apple. L’High resolution, l’alta risoluzione delle immagini, è una sua creatura. Ha fornito consulenze e soluzioni avveniristiche ai più grandi editori, a cominciare da Arnoldo Mondadori. È stato il dominus incontrastato della fucina da cui sono uscite tre generazioni di stampatori, linotipisti, compositori a mano, fotocompositori, fotoincisori, serigrafi, ritoccatori, fotolitisti, fotoformatori, montaggisti, operatori di computer grafica, programmatori. Ha collaborato con le più famose multinazionali, come Adobe, Agfa Gevaert, Basf, Canon, Chemco, Du Pont, Durst, Ferrania, Kodak, Hp, Olivetti, Ricoh, Xerox. È tuttora docente di tecnologie di stampa per imballaggio all’Università di Parma.
È di nazionalità francese?
No, sono nato a Verrès, in Val d’Aosta.
Come finì a Verona?
Mi ci mandarono nel 1966 dal Colle Don Bosco, nell’Astigiano, dove si preparano gli insegnanti. Durante la Seconda guerra mondiale avevo trascorso quattro anni in un collegio della famiglia salesiana a Ivrea. Poi fui rispedito al mio paese perché nella nostra classe, formata da 32 alunni, 28 si presero la tubercolosi.
Accidenti.
Eh, caro mio, non c’era niente da mangiare: un po’ di riso e un fagiolo che rotolava nel piatto. Pane fatto con il mais, polenta solida in pratica. Niente sale. E con la denutrizione o ti veniva la Tbc o ti veniva la pellagra. Io mi buscai la prima.
Perché dalla Val d’Aosta era stato mandato in collegio a Ivrea?
Perché mio padre Augusto, fiduciario della Società idroelettrica piemontese che forniva l’elettricità a Torino, era morto quando avevo 2 anni. A 5 persi anche mia madre Maria, una sarta. Non avendo fratelli, fui cresciuto dai nonni materni Pietro e Margherita.
Erano senza figli?
Ne misero al mondo ben sette. Ma erano già tutti morti.
Mammamia. Terribile.
Eh, la vita è fatta così.
Quanti sono i laici consacrati?
Sempre meno. Qui siamo rimasti in 38. Gli ultimi due hanno dato i voti nel 2015, ma vengono da fuori provincia. Prima c’eravamo solo noi salesiani a insegnare. Ora si sono aggiunti 130 docenti esterni.
Come e perché nacque l’Istituto San Zeno?
Ci fu un accordo con l’Enipg, l’Ente nazionale istruzione professionale grafica, costituito nel 1950 da Confindustria, Cgil, Cisl e Uil. Lo presiedeva Arnoldo Mondadori. Vi era un disperato bisogno di formare personale qualificato. Così i salesiani inviarono a Verona dal Colle Don Bosco e da altre città i migliori tecnici del settore: Luigi Fumanelli, Paolo Cottino, Federico Rota, Mario Molinari, Luigi Meda. La prima tipografia si trovava nella sede di via Don Provolo. Io insegnavo in una soffitta e intanto seguivo la costruzione della parte grafica in via Don Minzoni. Non abbiamo fatto altro che imitare il nostro fondatore, un novello Gutenberg. Se gli italiani, ancor prima dell’Unità d’Italia, impararono a conoscere i millimetri e i centimetri lo si deve all’opuscolo Il sistema metrico decimale ridotto a semplicità ad uso degli artigiani e della gente di campagna, scritto da don Giovanni Bosco nel 1850 e stampato in proprio nella tipografia dell’Oratorio San Francesco di Sales.
Dovevate formare le maestranze per le nascenti Officine grafiche Mondadori di via Zeviani.
Non solo. Anche per numerose aziende nazionali di primaria importanza e per il grande tipografo tedesco Giovanni Mardersteig, veronese d’adozione che, dopo aver rilevato a Parma i caratteri creati sul finire del 1700 da Giambattista Bodoni, si era dotato della sua prima macchina da stampa offset. In quel periodo aureo, grazie ai nostri allievi, nacquero più di 40 aziende di fotoriproduzione. Mezzo secolo dopo ne rimane una sola, la Fotolito veneta di Giulio Storace, che ha lavorato per Arnoldo Mondadori, per le riviste fondate da suo figlio Giorgio, come Airone e Bell’Italia, per Architectural Digest della Condé Nast, per l’Enciclopedia Treccani, per gli editori Cairo e Marsilio. L’Enipg tratteneva agli operai un 5 per cento dello stipendio per la formazione degli apprendisti. Il primo direttore della scuola grafica del San Zeno fu don Lino Prezzi, il secondo don Silvino Pericolosi. Poi sarebbero arrivati don Gianmario Breda e don Roberto Oberosler, trentino della Valle dei Mocheni, completamente diverso da me anche se siamo nati lo stesso giorno, lo stesso mese e lo stesso anno.
Testa fina, don Pericolosi. Fu il maestro di Vittorio Sgarbi. «Mi autorizzava a leggere I dolori del giovane Werther, nonostante Wolfgang Goethe figurasse nell’Indice dei libri proibiti», mi ha raccontato il critico d’arte.
Io fui arruolato da don Ernesto Giovannini, che veniva dagli Stati Uniti e capiva al volo le esigenze moderne. Mi dedicai fin da subito alla sperimentazione. Se non tocchi con mano, non capisci. Una domenica, per rilassarmi, visitai la Fiera di Verona. Vidi uno standista che trafficava con un aggeggio. Chiesi che cosa fosse. «Un computer», mi rispose. Avevo sempre saputo che gli elaboratori della Ibm occupavano un’intera stanza. Era il primo pc di dimensioni umane. Lo usava per stabilire le miscele dei mangimi per i polli. E così ebbi il mio primo Programma 101 Olivetti, calcolatore elettronico da tavolo. (Mi mostra il manuale d’uso). E con quello mi misi a scrivere software. Li vendevo alla 3M, la multinazionale del Minnesota. Me li pagava 1 milione di lire l’uno. Parlo degli anni Sessanta.
Oltre 10.000 euro di oggi.
Cominciai anche a collaborare con la Zabriskie gallery di New York, che ogni mese esponeva le foto di un artista del calibro di Robert Doisneau o Man Ray e pretendeva che le immagini stampate fossero prive di retinatura.
Impossibile.
Infatti nel metodo escogitato da me il retino c’era. Ma non si vedeva. Venivo dallo studio della chimica nella fotografia e avevo inventato quella che oggi chiamano l’alta risoluzione. Non ci fu bisogno di spiegarlo a Mario Formenton, il genero di Mondadori: mise a mia disposizione l’intero ufficio tecnico delle Ogam. Mi veniva a trovare anche il vecchio Arnoldo, sorreggendosi con il bastone. Occupava la prima sedia che gli capitava a tiro e mi diceva: «Prima parliamo delle persone, poi delle tecniche che devono gestire». Discutevamo di tutto. Un gigante. Formenton era sempre al suo fianco.
E che cosa le chiedeva?
Nulla. Ero io che chiedevo a lui: dagli scanner alle sviluppatrici automatiche per i film. Non diceva mai di no. Sa com’è, se a lei viene un’idea, l’invidia o la paura del nuovo la stroncano sul nascere. D’altronde, cambiare è una violenza che facciamo all’uomo, ma necessaria per evolversi. Bisogna essere molto prudenti e capire le caratteristiche di ogni singolo individuo.
Perché le Officine grafiche Mondadori da oltre 4.000 dipendenti sono scese a 440?
Tipica evoluzione del settore.
O involuzione?
No, no. È cambiata l’editoria, non la Mondadori. Si sono buttati tutti sulla comunicazione a 360 gradi, che significa anche Internet. Se resti solo stampatore, muori. Come fai a battere la concorrenza del libro digitale venduto a 9 euro anziché a 20? Però noto con sollievo che i miei allievi vogliono ancora studiare sulla carta, non sui file.
Che cosa ha di affascinante il packaging, oggetto delle sue lezioni all’Università di Parma?
L’imballo non è diverso da un libro o da una rivista. Sempre di stampa si tratta. È una delle tante facce della comunicazione. Gli involucri devono garantire la sicurezza e la vendibilità del contenuto. Lei sceglie quello che c’è dentro senza vederlo. Compra l’immagine che c’è fuori.
Sulle scatole dei prodotti Apple c’è soltanto una mela grigia.
Sì, ma quanto vale quella mela morsicata?
L’Albero della conoscenza produce frutti costosi.
L’Albero della conoscenza del Bene e del Male non c’entra nulla con la Apple. Steve Jobs mi spiegò che era vegano e mangiava solo mele. Per questo volle che il logo della sua azienda fosse un frutto.
Lei ha portato la conoscenza nei cinque continenti.
Solo in quattro. Ho insegnato soprattutto nelle due Americhe, in Cina e in Russia. Caduto il Muro di Berlino, andai a tenere corsi in Siberia, nell’Università statale di Novosibirsk, la più grande d’Europa: 160.000 studenti. E poi a Mosca, Omsk, Krasnojarsk. Gli insegnanti erano senza stipendio da due anni. Si guardarono attorno e notarono tre bisogni: allevare animali, coltivare vegetali e conservarli per poterli commercializzare. Packaging, quindi. Li vedevo affamati di nozioni su quest’ultimo argomento. Tutti i miei allievi erano già laureati.
Come si comunica con l’imballo?
Qualsivoglia comunicazione dev’essere chiara, semplice, completa. È uno schema fisso per consentire una decisione libera e indipendente. Altrimenti trasmetto informazioni, ma non comunico. La gente che vive con gli occhi appiccicati allo smartphone riceve una quantità impressionante di dati, ma non ha mai un momento per pensare e decidere tra vero e falso, giusto e sbagliato, bello e brutto. Già 500 anni prima di Cristo, Confucio ammoniva: leggere senza meditare non serve, meditare senza leggere è pericoloso.
E dopo aver visto l’immagine sulla scatola?
Decido: bello, mi piace, lo voglio, lo compro, lo pago. Potrei anche rubarlo, ma non sarebbe morale.
Papa Francesco direbbe che è un comandamento consumistico.
Chi fa qualcosa, lo fa per ottenere un utile, altrimenti perché lo dovrebbe fare? Tutte le azioni umane o producono un utile o sono inutili. A me viene da ridere quando leggo che il governo vuole diminuire l’Iva per dare più soldi ai lavoratori. Nooo! L’Iva devi abbassarla agli imprenditori, perché sono le aziende che producono utili.
Che cosa fa all’Istituto San Zeno, ora che non insegna più?
Ricerca. In questo momento sto affrontando il problema della riproducibilità dei colori su supporti diversi: carta, cartone, plastica, metallo, legno. È possibile conseguire lo stesso risultato su una lattina di birra e sul monitor di un pc? Come ottenere la ripetibilità di un risultato qualitativo? Sono a buon punto.
Non ne dubitavo.
Il futuro consiste nel cogliere segnali deboli e trovare soluzioni. Sempre Confucio, insegnava: se vuoi risolvere un problema questa settimana, semina riso; se vuoi risolverlo fra due anni, pianta un albero; se vuoi risolverlo per sempre, istruisci le persone. Ho passato intere giornate nei musei a osservare come reagiscono i giovani davanti a una tela grigio sporco di Claude Monet.
Come reagiscono?
Neppure la vedono. Mentre davanti a un’opera di Vincent van Gogh si fermano tutti. Perciò hanno torto i miei colleghi ultraquarantenni, che prediligono i colori sfumati, e ragione i ragazzi, che cercano brillantezza e limpidezza.
Era più difficile fare scuola nel passato oppure oggi?
Ai miei tempi imparavi un mestiere e lo esercitavi per tutta la vita. Oggi gli studenti non sanno nemmeno che ne sarà di loro. Si è disciolta la famiglia. Ha idea di che significhi per un docente parlare con una sorella, una nonna, una zia, anziché con i genitori dell’allievo? I ragazzi hanno bisogno del padre e della madre, ma spesso non li hanno.
Che cosa pensa dei social?
Bah! Facebook condiziona i politici, consente l’insulto nell’anonimato, diseduca.
La Chiesa sa comunicare?
Non mi pare. Papa Bergoglio riunisce i vescovi per capire che cosa pensano sulla morale e sulla bioetica, perché sa che hanno idee contrapposte. Ma quando nelle religioni non vi è accordo, si arriva agli scismi.
Legge L’Osservatore Romano?
No, e neppure Avvenire. Solo Time, il settimanale americano.
Se chiude gli occhi, che cosa ricorda del suo arrivo a Verona mezzo secolo fa?
Vedo Chasseur, un valdostano a passeggio in via Mazzini, che incontra una bella ragazza ma non capisce quello che dice. E allora decide di prendere lezioni di dialetto da Antonio Pigozzi, che era suo compagno di studi al Colle Don Bosco.
L’ha imparato? Sentiamo.
«Tempo, cul e siòri i fa quel che i vol lori». Che magnifico proverbio! E anche: «Fate cantòn e tuti i te pissa adòsso».
Promosso.
Ho anche imparato che via Sole non celebra la stella più vicina alla Terra bensì le sòle, i pezzi di cuoio usati dai calzolai nel rione della Carega per risuolare le scarpe. Quanti veronesi lo sapranno?
L’Arena