La Stampa, 15 ottobre 2019
Belzoni e il segreto della piramide di Chefren
CAMBRIDGE, 1823
Ho appena ricevuto il permesso da S.A. l’Imperatore del Marocco di recarmi a Fez, e spero di ottenere la sua autorizzazione di accedere al deserto con una carovana destinata al Sudan». Giovanni Battista Belzoni si esprime con calma determinata. È un uomo molto alto, supera i due metri e trasmette una sensazione di energia infinita. I capelli folti, ricci, d’un castano che vira al rosso, incorniciano un bel viso, illuminato dagli occhi azzurri. Parla un ottimo inglese che non cela radici mediterranee. È una figura luminosa, a tratti schiva, sebbene mai priva di ardore. Comunica una passione trascinante. Ha da poco compiuto il 44esimo giro di calendario. Il suo tratto dominante è la forza. E la fierezza tranquilla.
Annuisce soddisfatto quando apre un piccolo scrigno. «Conosce l’adagio, "nessuno uomo è profeta in Patria"? Bene, non potrei dire che sia il mio caso. Lei capirà da questo (porge una bellissima medaglia) che la mia città natale è stata gentile con me». Si mostra pago, il gigante. È l’uomo che ha svelato il tempio di Abu Simbel ed è penetrato per la prima volta da secoli nella seconda grande piramide. Ha trovato il più bello dei sepolcri dei faraoni, la «Tomba Belzoni» e l’ha ricostruito con successo a Piccadilly. Il suo libro è alla terza edizione. Eppure, tutto questo non basta a sedare l’evidente inquietudine che lo anima mentre prepara il suo viaggio verso Timbuctu.
Lei è italiano, vero?
«La mia città natale è Padova, dove la mia famiglia, di origine romana, ha risieduto per anni. Lo stato di agitazione dell’Italia nel 1800 mi costrinse a lasciarla e da allora ho visitato diverse nazioni d’Europa e ho vissuto molte esperienze diverse».
Da dove cominciò?
«Rivolsi in particolare la mia attenzione all’idraulica, scienza che avevo appreso a Roma, che mi fu di grande utilità e che fu infine la vera ragione per la quale andai in Egitto. Ma ora sto anticipando i fatti. Nel 1803 giunsi in Inghilterra dove poco dopo mi sposai e vi rimasi per circa nove anni».
Fu difficile acclimatarsi?
«Non ero ricco e lo fui ancora meno dopo essermi sposato. Mi sono così deciso ad utilizzare qualche conoscenza che avevo in fisica, e ho percorso le città di Scozia e Irlanda, facendo vedere ai curiosi degli esperimenti d’idraulica. Questo spettacolo non era sufficiente per attirare un pubblico, (così) ho fatto ricorso alla forza fisica che il cielo mi ha donato. Sollevavo come piume dei pesi enormi, e ho portato sino a venti persone, alcune montate sulla schiena, altre attaccate al collo, alle braccia, alla cintura. I buoni contadini irlandesi finirono per scambiare lo scienziato per un esorcista. Sono partito per Lisbona, dove sono stato ingaggiato da San Carlos, e ho interpretato Sansone».
E poi?
«Da Lisbona mi sono spostato a Madrid, dalla Spagna sono andato a Malta, ed è là che ho incontrato Ismael Gibraltar, l’agente del Pacha d’Egitto, che mi ha convinto ad andare al Cairo, per costruire una macchina idraulica adatta ad utilizzare le acque del Nilo nel suo giardino».
Si spinse subito a Giza per vedere le piramidi. Che effetto le fecero?
«Difficilmente potrei descrivere una scena così grandiosa».
Andiamo a Tebe. Come nacque il recupero del busto di Ramses nel 1816? È parso a tratti inattuabile?
«Incontrai diverse difficoltà in questa impresa per mancanza di macchine. Con corde di foglie di palma, gli arabi non accostumati a tali lavori (e) tutti gli ostacoli che mi posero gli agenti francesi, pure vi assicuro che la perseveranza fu abbastanza per superare tutto. Alla fine, riuscii a trasportarlo fino al Nilo, colà lo imbarcai, ed ora, con infinito piacere, sta collocato con le altre rarità del Museo Britannico».
Abu Simbel. Azione ardua pure questa, no?
«In quello stesso viaggio mi sono inoltrato in Nubia sino alla seconda cateratta, cioè dove il Nilo cessa di essere navigabile. Ho incominciato ad aprire il gran tempio di Ibsambul, la cui entrata trovai da più di quaranta piedi al disotto dell’arena che da secoli l’aveva coperto. Trovai la facciata, ornata di quattro state colossali sedute, cadauna di 52 piedi, dalle piante alla fronte».
Il 1817 è stato un buon anno. È anche quello della «Tomba Belzoni».
«Al mio ritorno a Tebe ho scoperto sei tombe nella Valle dei Re. Una è il lavoro più magnifico e perfetto che sia rimasto tra gli avanzi dello splendore egiziano. Basti dire che non v’è spazio del muro non coperto di figure di finissimo bassorilievo. I colori sono così ben conservati che paiono di fresco dipinti».
È vero che ha pensato a organizzare una mostra a Londra quando era nello scavo?
«Ho preso (subito) la risoluzione di estrarre con la cera in disegno tutti i bassorilievi, ed avendone una esatta copia della loro situazione mi sono impegnato a erigere una tomba consimile in Londra, esattamente eseguita che non vi si trovava differenza alcuna, né nella scrittura de’ geroglifici o nella situazione delle figure, come pure dei colori».
Gran novità. È stato questo lo spunto per tentare i segreti della piramide di Chefren?
«Arrivato in Cairo dopo il mio secondo viaggio, mi posi alla ricerca dell’entrata della piramide, il cui ingresso fu ricercato particolarmente dai Savan Francé (sic), che inutilmente persero molto tempo intorno alla suddetta. Per grazia di Dio mi riuscì di indagare circa il punto (di ingresso) e in un mese di escavazioni rinvenni felicemente l’entrata. Una scoperta inaspettata - eseguita affatto a mie proprie spese!».
Adesso riparte per l’Africa. Non pensa alle difficoltà del destino, a chi è perito in imprese simili alle sue?
«Dobbiamo sottometterci alla volontà della Natura, perché ciò che è fatto, è fatto». —
Tutti i virgolettati sono tratti testualmente dagli scritti di Belzoni