La Stampa, 15 ottobre 2019
Assad contro Erdogan, di nuovo
Nell’ottobre del 1998 Recep Tayyip Erdogan era sindaco di Istanbul da quattro anni e Bashar al-Assad faceva ancora l’oculista a Londra. Il padre Hafez si era scontrato con il potere turco dal 1980, quando aveva deciso di contrastare le mire «neo-ottomane» di Ankara con l’appoggio al Partito curdo dei lavoratori, il Pkk, e aveva dato ospitalità al suo leader, Abdullah Ocalan. Ma nell’ottobre del 1998 i due Paesi erano a un passo dalla guerra, Damasco aveva inviato un mezza dozzina di divisioni nel Nord e installato 36 batterie di missili Scud vicino alla frontiera, nel timore di una invasione imminente. Dovettero intervenire gli Stati Uniti, e la Russia, per evitare il peggio. Il 20 ottobre si arrivò all’accordo di Adana. Assad padre cessava di sostenere il Pkk e accettava di consegnare Ocalan, che alla fine sarebbe arrivato in una prigione turca dopo una lunga crisi internazionale.
L’accordo di Adana segnò anche l’inizio di un lungo inverno per i curdi siriani, che Assad aveva lasciato si organizzassero nel Pyd, il gemello siriano del Pkk. Il tradimento del raiss ha lasciato un segno duraturo. Ma anche i decenni di collaborazione stretta. Assad figlio si è così ritrovato nelle mani le carte buone e cattive che gli aveva lasciato il padre. E di fronte un avversario implacabile come Erdogan. Quando la rivolta degli arabo-sunniti ha cominciato a travolgerlo, alla fine del 2012, ha lasciato i curdi, che avevano costituito le loro Unità di difesa popolare, le Ypg, a sorvegliare i territori a Nord-Est, per spostare tutte le truppe ad Aleppo e Damasco. Per sette anni i curdi hanno lottato per costruire la loro regione autonoma, il Rojava. Il regime era un avversario, la Turchia, e ancor più le milizie jihadiste sostenute da Ankara, il nemico vero e mortale. Fino all’avvento dell’Isis e all’intervento degli Stati Uniti nel Nord-Est della Siria.
Nel frattempo Erdogan creava un’armata ribelle, incentrata attorno al gruppo Ahrar al-Sham, per abbattere Assad. Nell’estate del 2015 il raiss è al lumicino, con i colpi di mortaio che cadono nel giardino del palazzo presidenziale. Arriva Vladimir Putin a salvarlo con l’aviazione russa, sfiora la guerra con la Turchia dopo che un caccia Su-24 viene abbattuto da un F-16 turco. Lo scontro Assad-Erdogan è al culmine. Il leader turco accusa il presidente siriano di essere un «macellaio» di avere le «mani sporche del sangue di mezzo milione di persone». Per Assad l’avversario è un «Sultano», un «complice dell’Isis», un estremista islamico che vuole restaurare «l’impero ottomano e ridurre la Siria di nuovo in schiavitù». Il fallito golpe del luglio 2016 cambia però ancora lo scenario. Erdogan si sente tradito dagli Stati Uniti si riavvicina alla Russia e accetta un compromesso anche sulla Siria.
Il cambio di regime non è più una priorità, a patto che la Turchia ottenga una «fascia di sicurezza» lungo la frontiera. Una cosa però Erdogan mette in chiaro con Putin: «Non stringerà mai la mano ad Assad». ll leader siriano è dello stesso parere. Ringrazia Putin ma ribadisce che si «riprenderà ogni centimetro quadrato di territorio». La lotta ai ribelli sostenuti da Ankara è implacabile. Damasco va all’assalto di Idlib, si rischia un bagno di sangue terrificante, interviene di nuovo il Cremlino a mediare. I rapporti con i curdi continuano sottotraccia, nonostante la rabbia del raiss per la loro alleanza con l’America. Assad, nell’ottobre del 2018, li avverte: «Alla fine gli americani vi tradiranno, ve ne pentirete, soltanto l’esercito siriano difenderà il popolo siriano». Un anno dopo Trump scarica i curdi e Erdogan scatena la caccia ai guerriglieri delle Ypg. Il duello Assad-Erdogan continua. E questa volta, come nel 1998, siamo a un passo dallo scontro armato diretto.