Se lo aspettava tanto rumore?
«Certo che no! C’è una parte cinica, legata all’ossessione del clic, e c’è quella forma di affetto che induce a reazioni isteriche. Questa emotività sbandierata, non vissuta, sfocia spesso in considerazioni incontrollate».
Dev’essere stato duro essere costretto a rivivere situazioni e decisioni già dolorosamente rese pubbliche.
«Eh sì, ci sono rimasto male, non solo per l’evidente forma di stalking nei miei confronti ma anche per il poco rispetto verso la musica. Emotivamente è terribile: si va a toccare una sfera intima, privata, che per tutti dovrebbe essere sacra e inviolabile. Tutti lì a fare diagnosi: partendo dalle due dita, senza accorgersi che sono sulla sedia a rotelle – ma si può fare di questo un oggetto di discussione? Casomai è un soggetto di discussione».
Magari glielo hanno chiesto per affetto.
«Questo non è voler bene, attenzione. È aggressione egoistica. Ci rifletta, lo stalker pretende che tu sia come vuole lui, non ha rispetto per la tua libertà, se ne frega. È difficile spiegargli che io mi sento libero e felice quando dirigo, non quando suono. In quei giorni anche i suoi colleghi continuavano a chiedermi, quando torni con la tua musica? Che vuol dire, quando riprendi a suonare il pianoforte? Son tre anni che non suono più, possibile non ve ne siate accorti? Quando poi continuo a leggere titoli tipo "Il pianista malato", ci soffro: primo, perché non sono un pianista; secondo, perché convivo con una malattia, non sono un malato. Malato è chi scrive queste cose. Come quel signore che mi ha chiesto: qual è la relazione tra handicap e talento?».
Cosa ha risposto?
«Che l’handicap è solo negli occhi di chi lo vede, il talento è talento, le persone son persone, non migliori o peggiori perché sono sulla sedia a rotelle; contano l’esistenza, le emozioni, il vissuto».
Dunque il "day after" Bari è stato devastante.
«Un inferno: impresari che telefonavano chiedendomi se avrei cancellato concerti, giornalisti che chiamavano per chiedermi se confermavo il ritiro. È questo che fa male, non sfruttiamo l’opportunità che ci dà la musica per diventare una società migliore ma vogliamo quella piccola emozione che ci conforta per poi dimenticarla, volerne subito un’altra. Una droga. Questo mi ha portato a fare un’analisi della situazione, ho concluso che Twitter non è un giornalismo liquido e veloce ma un mezzo per aggredire violentemente. La nostra società è ossessionata da un’aggressività emotiva che genera devianze».
La musica ne soffre?
«La musica è la cura, ti costringe a eliminare l’ipertrofia egotica di cui siamo vittime. Vorrei semplicemente essere giudicato per l’intellettuale che sono con la bacchetta in mano, cioè un direttore d’orchestra. M’interessa solo quel che serve alla musica, come il disco Grazie Claudio , con le registrazioni del concerto per i cinque anni dalla morte di Abbado, che è lì che aspetta di uscire, bello, pieno di grandi musicisti. Siamo qui a lottare per ottenere un concerto. Vorrei avere i mezzi per fare il mio mestiere con il rigore filologico che ormai non usa più. Ma anziché parlare di come lavoro e dei risultati, ci si sofferma sull’irritualità del mio giubbotto di pelle, degli anelli, delle due stupide dita».
Non sarà mica un problema anche l’abbigliamento…
«Potrebbe, in certi ambienti cosiddetti classici, ma non posso mica pretendere che il tempio accetti l’eretico. Ancor più penoso è finire in un tritacarne, costretto a rubare tempo a ciò che mi fa stare bene, cioè lo studio».
Sembra incredibile che proprio a lei, che fa sforzi inauditi per allargare il pubblico della classica, venga negato un teatro.
«È così, è triste e fa male. È una lotta continua: per mantenere la mia orchestra, per rispettare i grandi musicisti che mi seguono, per ottenere i posti dove lavorare. Passo più tempo a immaginare cose che a realizzarle. Ho dovuto accettare di fare concerti per pianoforte per i quali mi offrono un sacco di soldi pur di finanziare l’orchestra. L’ho detto ridendo ai miei, siamo l’unica orchestra nomade al mondo, cacciati come i rom, ci danno il campo poi ci buttano fuori».
Di cosa hanno paura?
«Forse del fatto che parlo troppo e, spesso, di crescere e studiare. Allora si chiedono: quanto tempo ci vorrà? Quando finirà? Ma io continuo a vedermi piccolo, uno che invecchia restando bambino. E se dovessimo fare della fantapolitica, affidare a me un teatro sposterebbe degli equilibri: li destabilizza riascoltare la solfa che la musica ha bisogno di tempi lunghi, di investimenti. Poco gl’importa che al concerto di Foggia, durante il progetto di formazione all’ascolto fatto con la Regione Puglia, c’erano più persone in fila che per l’uscita del nuovo iPhone».
Ma noi viviamo nell’impero del tutto e subito.
«Che è contro qualsiasi forma di humanitas: il tutto e subito prevede la distruzione di qualcos’altro, e questo si ripercuote su ogni cosa, dalla solidarietà ai consumi all’ambiente. Per fare i nostri tweet e i nostri instagram e facebook usiamo campi di server che occupano spazi immensi e hanno un enorme impatto ambientale. Il problema delle due dita di Bosso occupa in rete più spazio di un trattato perduto di Schönberg e Orff».
Non è che il corto circuito è iniziato con la sua partecipazione a Sanremo, quando il pubblico che non conosceva la classica ha cominciato ad amarla… irritualmente?
«Guardi, io sono figlio del corto circuito. Per me è iniziato a sette anni, quando il maestro di musica disse a mio padre: siete operai, tuo figlio faccia l’operaio non il musicista, tantomeno il direttore d’orchestra. Poi gli ho dato dei begli schiaffoni a quello lì, che è rimasto a suonare in fila, ci pensavo mentre facevo i Carmina Burana all’Arena, l’unico brano della mia carriera che ho suonato in tutte le posizioni, contrabbassista, pianista, direttore».
Riesce la musica a compensare le amarezze?
«Sempre. Quando ho poi la bacchetta in mano e la partitura davanti, affondare in questa meraviglia, magari anche nel dolore più profondo di chi ha scritto, trascendo.
Dimentico i pregiudizi, e anche quella lurida storia delle due dita. E spero sia stato chiaro: mentre tutti si affrettavano a darmi per morto, io ero in prova con l’orchestra ed ero il bambino più felice del mondo».