la Repubblica, 15 ottobre 2019
Dizionario della lingua di Trump
Quando incontra la neolingua, cosa deve fare un traduttore? Un bel problema, che da professionale diventa addirittura morale, visto che tradurre non è semplicemente trasporre le parole in un’altra lingua, ma piuttosto compiere una ricognizione nel significato di una frase, e ricrearne il senso in un contesto culturale diverso. Ma poiché un testo – qualunque testo – è molto più dei suoi elementi semantici e della somma delle parole da cui è composto, bisogna trovare un’equivalenza di senso che superi la forma e l’apparenza del discorso, riformulando il messaggio nel linguaggio nuovo, per suscitare le sensazioni intellettuali ed emotive dell’originale, il vero modo di restargli fedele. Capita però che l’oggetto da tradurre sia il “Newspeak”, la lingua artificiale che il potere usa per sostituire la vecchia visione del mondo con un’altra realtà più vera del reale, al punto da dominare il discorso pubblico, mettendo fuorigioco ogni altra forma di pensiero. Non c’è un codice, per questo linguaggio, non c’è neppure un vocabolario, tantomeno una grammatica e una sintassi: bisogna navigare a vista. Nello stesso tempo, saltano tutti i vecchi codici, quel patto non scritto tra il leader che parla, il traduttore che trasforma il linguaggio nel passaggio dalle cuffie al microfono, i giornalisti che stanno prendendo appunti: per cui il tono sarà controllato, il contesto resterà civile, la retorica risulterà istituzionale. E invece no. Quando irrompe la neolingua, non si sa come tradurla e come interpretarla, perché in ogni istante non si capisce cosa sta per accadere, non essendoci più alcuna regola.
Cosa vuol dire Donald Trump quando si rivolge a Brigitte Macron, appena la incontra il 14 luglio del 2017 a Parigi? « You’re in such good shape »: molti giornali francesi, nel fare la cronaca, hanno usato la formula letterale «Lei è in splendida forma». Ma chi sa che il presidente americano si è vantato di «prendere le donne per la fica», ha spiegato che una giornalista lo criticava perché aveva le mestruazioni, ha invitato i suoi fan a non votare una sua rivale repubblicana perché la giudicava brutta («guardate la faccia che ha, chi potrebbe mai eleggere una donna così?»), deve forse cercare un significato più coerente con il personaggio e la sua storia: «come si mantiene bene», oppure «ma lei è ancora niente male». Quale dei due risultati è più fedele alla realtà, e rende il miglior servizio al leader che parla e al pubblico che ascolta?
La stessa domanda nasce quando Trump denuncia la folla di migranti che arriva dai Paesi africani, da Haiti e dal Salvador: « Why are we having all these people from shitole countries come here »? Letteralmente: perché lasciamo entrare qui tutta questa gente che viene da Paesi di merda? Ma il termineshitole ha imbarazzato i media.
Libération ha tradotto “topaie”, i giornali greci hanno parlato di “Paesi cessi”, invece la stampa spagnola ha usato “Paises de mierda”. La traduzione, per abitudine o per convenzione (e magari più tecnicamente che volontariamente), corre il rischio di eufemizzare, de-estremizzare, riconducendo il discorso che deraglia dentro i canoni, come se fosse spaventata, e dovesse riportare il ruolo a prevalere sul personaggio.
È giusto? Se lo chiede Bérengère Viennot, che insegna traduzione all’università Paris VII ( La lingua di Trump, Einaudi). E per capirlo, va a cercare la potenza insieme primordiale e modernissima che cresce dentro il lessico di Trump, capace da solo – quasi più della sua politica – di scardinare un intero sistema di comunicazione, cambiando i meccanismi del discorso istituzionale d’Occidente, che sembrava ormai definito dentro i canoni classici seguiti in tutto il dopoguerra. Intanto, l’efficacia. Quando si ascolta Trump si ha l’impressione di capire tutto, e non è una cosa da poco. Vocaboli semplicissimi, frasi brevi, niente subordinate, slogan che fissano un’immagine, mentre la sintassi «dipende dai giorni», ma è un accessorio. Poi si legge il testo e si scopre che gli elementi che compongono la frase sono spesso lasciati in sospeso, incompleti, in molti casi incoerenti. Ma ogni segmento del discorso va a segno, anche se il testo rivela «una crisi apparente dell’elucubrazione».
Più che la forma, conta il messaggio: e il messaggio cammina – eccome – sostenuto e sospinto da una ripetizione infinita delle stesse parole. Nella prima intervista dopo la sua elezione, al New York Times, il presidente americano ricorre 45 volte al suo termine preferito, “ great “, venticinque volte al verbo trionfale “ win “, sette volte all’aggettivo “ tremendous “. Un vocabolario ristretto, insistente, concentrato, come se il suo pensiero girasse continuamente in un circuito chiuso, preoccupato e insieme fiducioso nell’energia di quell’insistenza. Questo campo lessicale limitato è innaffiato da superlativi, aggettivi generici, avverbi esagerati, sfuggendo programmaticamente alla precisione e alla concretezza, perché più le parole sono precise, sofisticate, colte, dice Bérengère Viennot, minore è l’ambiguità semantica, e dunque il cittadino utente del discorso politico può verificare, controllare, giudicare.
Quel che il cittadino capisce subito è lo scarto rispetto al politichese, la differenza trumpista dalla lingua normalmente consumata nel sistema politico. La ripetizione infinita degli stessi vocaboli (" good “, " bad “, " great “, " incredible “ " tough “) li fissa ma inchiodandoli ad ogni frase li svuota, riducendoli a simboli di se stessi, simulacri di concetti mai spiegati, passepartout generici impiegati per indicare fenomeni complessi, che richiederebbero parole ricche, ma precise e nette, univoche. Ma così irreggimentato e controllato nella sua semplificazione, il discorso si presta a diventare oggetto, strumento, che può essere scagliato nella polemica politica contro gli avversari e la stampa nemica, con violenza.
Ovviamente siamo completamente fuori dal politicamente corretto, che anzi è il grande nemico, siamo fuori dalla convenzione retorica della Casa Bianca, dalla tradizione del costume presidenziale. E Trump lo sa: «Adesso diranno che sono orribile, così poco presidenziale. È così facile essere presidenziale… Ma invece di avere diecimila persone che cercano di entrare in questo stadio strapieno, non ce ne sarebbero più di duecento». Il rifiuto della convenzionalità, la fuoruscita dalla normalità, il ricorso all’eccezionalità infiammano il Paese su fronti opposti, acuendo l’attenzione. Cavalcando costantemente l’impeto di quell’onda, il presidente diventa un performer, dispensato dalle buone regole della vita sociale e politica, liberato dall’obbligo di filtrare quel che pensa, sciolto dal vincolo dell’opportunità, che porta tutte le persone responsabili ad adattare le proprie idee, i propri comportamenti e naturalmente il linguaggio alle diverse situazioni.
Questo congegno verbale e concettuale esagerato e acuminato spiega da solo l’attenzione ripetuta alla regolarità, il ricorso alla volgarità, la ricerca della polarità. Il forgotten man, che Trump ha immediatamente tolto dall’ombra in cui viveva ringraziandolo subito dopo la sua vittoria (promettendogli che non sarà dimenticato mai più, anzi potrà entrare insieme con lui alla Casa Bianca), si sente per la prima volta riconosciuto, considerato, prescelto. Di più: si sente rappresentato e addirittura vendicato nel suo scontro con le élite economiche, politiche e intellettuali. Nell’ultimo paradosso della democrazia occidentale, questo omaggio di Trump al dio sconosciuto d’America annulla le distanze di ceto, le differenze di classe, gli squilibri di reddito, e dalle periferie del Paese il cittadino medio scambia il suo ringraziamento con il riconoscimento presidenziale. Si tratta di un riconoscimento “etologico”, per usare una formula di Marco Revelli: Trump è un miliardario ultraconservatore e reazionario, certo, ma soprattutto agli occhi del forgotten man è un ribelle, un irregolare che ha vinto anche contro l’establishment, un outsider di lusso a cui non metteranno le briglie, e continuerà a dire quel che pensa, soprattutto se scomodo.
Siamo ad un passo dal rovesciamento della realtà, con la furia trumpista scambiata per schiettezza, e quindi onestà. Siamo di fronte al popolo che officia il rito del “ believe me”, credetemi, la formula di cui Trump abusa, soprattutto quando sostiene affermazioni non credibili, «io ho un grande rispetto per le donne, believe me », «io sono la persona meno razzista che abbiate mai incontrato, believe me ». E il popolo crede, anche se il Washington Post rivela che il presidente ha mentito più di duemila volte nel solo 2017, crede perché lui ci crede, perché non chiede di capire ma appunto di credere, come se cercasse uno slancio fideistico, quasi religioso, capace di superare la realtà. «Quello che il presidente dice è vero al 100 per cento», dicono i suoi uomini come Richard Priebus, autocertificandosi, senza bisogno di aggiungere altro. E sfiorando la metafisica, il giorno in cui il suo candidato alla Corte Suprema Brett Kavanaugh fu accusato di violenza sessuale Trump arrivò a dire che «la gente non crede a quel che sta succedendo». E il suo avvocato, Rudolph Giuliani, va oltre, passando la soglia: «La verità non è la verità».
È la più ambiziosa e impudente negazione- ricreazione del reale, e delle categorie per giudicarlo. In questa nuova dimensione, il potere è definitivamente sciolto, libero non perché può dispiegare le sue facoltà, ma perché liberato da ogni vincolo col contingente, con gli altri, col rendiconto. È la politica che risponde a se stessa, procedendo per impressioni e per emozioni mentre scarta le riflessioni. Non a caso Twitter è lo strumento principe della comunicazione di Trump, che coi suoi “wow” raggiunge cento milioni di utenti sui social media, mentre attacca i giornali. A questo punto, non c’è nemmeno più bisogno di dire bugie e fabbricare menzogne: basta vivere in un mondo a parte, negando la realtà e affermandone un’altra, con la sincerità della necessità.
È l’ultimo passaggio fantascientifico della politica, la fuoruscita da sé (come noi la conoscevamo) per raggiungere la nuova dimensione, quella orwelliana dei “fatti alternativi”, dove chi comanda «impone la sua realtà senza risolverne le palesi contraddizioni, in totale dissonanza con la realtà dimostrabile e oggettiva». Trump lo ha detto, nel luglio 2018, a una convention di veterani: «Quello che vedete non è quello che succede realmente». Siamo così fuori dalla realtà tangibile, l’unica verità possibile diventa quella pronunciata dal potere, creatore, decisore e padrone del reale. D’altra parte, come diceva Orwell? «Se i fatti lo negano, bisogna cambiare i fatti», riscrivendo la storia, neutralizzando il senso del linguaggio, rendendo la lingua così incoerente da essere arbitraria, quindi pronta per ogni abuso. È chiaro che il problema, a questo punto, non è come tradurre questa nuova realtà: ma come viverla senza più controllarla, e cioè distinguere e capire. Ma nel mondo della neolingua, che bisogno c’è ancora di capire?