la Repubblica, 15 ottobre 2019
Le parole della felicità
Ci piace la vita ricca di sorrisi, baci, risate e musica, addolcita da vacanze (e cioccolato). Il denaro non è ai primi posti fra i nostri desideri. Viene dopo la natura e il sesso, che a sua volta è preceduto dalla primavera. Sono queste le parole che associamo alla soddisfazione di vivere: i tasselli della nostra felicità, in cui ci siamo crogiolati negli anni Venti dell’800 – l’Italia allora era ai vertici nel mondo – poi durante la belle époque, alla fine delle guerre mondiali e ancora all’inizio degli anni 2000.
Ricostruire la storia della gioia del mondo nei due secoli scorsi è l’ultima impresa di quel ramo dell’economia che, stanco di Pil e indici del debito, da diversi anni va alla ricerca della misura dell’ineffabile: la gioia di una nazione. Il nuovo studio, uscito ieri su Nature Human Behaviour, analizza gli ultimi due secoli in Italia, Germania, Gran Bretagna e Stati Uniti attraverso le parole che scrittori e giornalisti hanno scelto per rappresentare il mondo su libri, quotidiani e riviste. Gli otto milioni di volumi raccolti da Google Books (la titanica impresa di digitalizzazione è arrivata al 6% dei libri stampati) oltre a centinaia di giornali e riviste rappresentano l’immenso oceano di parole in cui i ricercatori hanno calato, come sonde, mille termini particolarmente rappresentativi delle nostre emozioni, ognuno dei quali è associato a un punteggio da zero (afflizione estrema) a 9 (il settimo cielo). Anno per anno, li hanno contati tutti per disegnare la curva della gioia.
«Abbiamo curve del Pil che risalgono all’epoca romana» spiega Eugenio Proto, economista comportamentale dell’università di Glasgow, uno dei quattro autori dello studio. «Ma la soddisfazione di un paese era stata ricostruita al massimo a partire d al 1973, con i sondaggi di Eurobarometro». La nuova storia della gioia parte dal 1820 e segue fedelmente le vicende dei quattro paesi.
Tutto il mondo – è il risultato – è stato felice in modo simile. Ogni paese invece ha vissuto crisi di fiducia che lo hanno reso infelice a modo suo: il 1848 in Italia e gli anni successivi all’Unità. Il “Winter of Discontent” inglese alla fine degli anni ’70, la vigilia dell’ascesa di Hitler in Germania e la fase difficile della riunificazione. La storia americana è forse la più martoriata. Sorrisi e baci si eclissano durante la guerra di secessione, la grande depressione del ’29 e la caduta di Saigon. Ma proprio gli Stati Uniti, oggi, mostrano una curva in salita ripida che non ha uguali al mondo, seguita da una timida ripresa emotiva in Gran Bretagna e dall’andamento piatto in Germania.
Poi si guarda all’Italia, e alle sue note dolenti. «Dalla crisi del 2007 viviamo un picco negativo che ha pochi precedenti» conferma Proto. In una decina d’anni la nostra soddisfazione è precipitata da un apice che era perfino superiore ai due dopoguerra a un abisso quasi pari ai due conflitti mondiali e alle rivolte del 1848. Dai nostri scritti sono sbarcati libertà e sorrisi. Al loro posto ci siamo riempiti di incidenti, guerre, terroristi, torture, debito e povertà. «Sono originario di Cosenza, anche se vivo all’estero da 25 anni» racconta Proto. «E non faccio fatica a riconoscere il mio paese oggi, in questi dati». Nessuna fiducia nelle istituzioni, corruzione e mancata crescita del Pil sono le cause che Proto, da economista, cita. «Ma l’aspetto che mi rattrista di più, a livello anche personale, è l’abisso fra nord e sud. Nella mia regione vedo il 40% di disoccupazione giovanile e una generazione priva di fiducia in se stessa e nel futuro. Per il paese si tratta di una bomba sociale. Una nazione infelice, infatti, non potrà che votare in modo infelice».