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 2019  ottobre 14 Lunedì calendario

Intervista a Franck Ribéry

Come sul prato verde. Franck Ribéry affronta con animo lieve e l’autorevolezza del campione la prima intervista italiana dentro il centro sportivo della Fiorentina. Quaranta minuti in cui racconta se stesso e il rapporto con il calcio che ama come la sua vita e che lo ha spinto, a trentasei anni, a raccogliere una nuova sfida, colorata di viola, diversa dalle altre, ma egualmente intrigante. «Quando ho accettato di venire a Firenze, non potevo sapere che sarebbe stato amore a prima vista. E invece è stato così, sin dalla sera della presentazione. Quella notte è stata speciale e la porterò sempre con me».

Amore totale e incondizionato. E l’impatto si è rivelato formidabile. Lo stadio scandisce il suo nome, la Lega lo ha premiato come miglior giocatore di settembre. Franck, rigorosamente in italiano, confessa le sue speranze e anche le difficoltà. «Perché ho vissuto un’estate diversa dal solito. Non mi era mai capitato di allenarmi da solo, ed è brutto. Il calcio è gioia e condivisione. Un conto è lavorare insieme ai compagni, un altro farlo a casa con un preparatore». 
Perché la Fiorentina? È stata davvero sua moglie a orientare la scelta? 
«Non proprio. Avevo altri contatti, in Inghilterra e anche in Italia. Ma con i dirigenti viola è scoccata la scintilla. Parlando con Pradè e Barone, anche con l’allenatore Montella, ho sentito calore e fiducia nei miei confronti. E allora Wahiba mi ha detto: andremo a Firenze. Ora sono qui e sono felice». 
Anche Toni, suo compagno al Bayern Monaco, ha avuto un peso nella scelta... 
«Luca è un amico e le sue parole sono servite. Mi ha raccontato la città, spiegato le dinamiche del club e la passione dei tifosi». 
Come si vive il passaggio dal super Bayern alla Fiorentina? 
«Sono venuto con la stessa determinazione che avevo in Germania. Firenze mi ricorda Marsiglia. La mentalità dei tifosi è la stessa, sono caldi e passionali. La gente qui vive per il calcio e mi spinge a dare l’anima per la squadra. Noi senza di loro siamo niente. La Fiorentina è un grande club con una grande storia ed è come una famiglia». 
Ha fatto in fretta a ritrovare la condizione. 
«All’inizio ho dovuto lavorare duro, ma già alla terza giornata contro la Juventus mi sentivo meglio. Gioco con il cuore e in campo metto tutto quello che ho». 
Non solo Firenze l’ha accolta bene, ma tutto il calcio italiano. I tifosi del Milan a San Siro si sono alzati in piedi per applaudirla. 
«È vero e conferma la bontà della scelta che ho fatto. La serie A è un buon campionato, conosciuto nel mondo. Juve e Inter sono fortissime, anche Roma e Lazio mi piacciono e il Napoli è cresciuto nel tempo». 
Non tutto fila liscio, però. Il razzismo e le intolleranze sono un bel problema. 
«Preferisco guardare il lato bello, per esempio la passione dei tifosi che ti applaudono quando entri in campo per il riscaldamento. C’è tanta gente sana che apprezza lo spettacolo. Questo è importante. Ho giocato con Zidane, Henry e Thuram che mi dicevano “il calcio va troppo veloce, cerca di godertelo”. Avevano ragione. Ora lo capisco meglio. Il razzismo, invece, non lo capisco perché siamo tutti uguali: bianchi, neri. Siamo esseri umani». 
E sul campo che differenze ha trovato? 
«Ho giocato 12 anni in Germania dove si corre sino al novantesimo qualunque sia il risultato. Qui si lavora sulla tattica e c’è molta strategia, come in Francia. Bello, così posso sperimentare una cosa nuova». 
Rispetto a quando ha cominciato, come è cambiato il calcio? 
«Le nuove generazioni sono differenti. Noi pensavamo a divertirci e a imparare, non certo ai soldi. Ora la vita è diversa, i ragazzi hanno altri problemi e priorità: le macchine, gli sponsor. Troppe cose per cui rischiano di rovinarsi». 
È per questo che parla molto con i giovani, almeno in campo. 
«Lo faccio anche fuori. Vorrei aiutarli. Mi piace perché mi ascoltano. Vedono come lavoro, come mi alleno, anche come mangio. Ho vinto tutto nella mia carriera e loro prendono esempio da me». 
Cosa pensa di potergli trasmettere? 
«La mentalità. Io non ci sto mai a perdere, se succede mi arrabbio. Bisogna pensare a vincere, sempre. Non è facile, anzi è impossibile. Ma bisogna provarci. Io lo faccio persino nelle partitelle di allenamento». 
Anche al Bayern era un punto di riferimento. 
«Lo eravamo in tre o quattro. Mi piace questo ruolo. Ho conosciuto Alaba che aveva 16 anni, lo portavo a casa mia a pranzo e lo incoraggiavo. Un giorno ha visto la mia Ferrari e il mio orologio al polso. Gli ho risposto di non guardarli e di pensare solo a migliorare e di concentrarsi sul campo. Dopo, e solo dopo, sarebbe arrivato il resto. Alaba ce l’ha fatta e ora mi ringrazia. Qui parlo tanto con Chiesa e Castrovilli, sono ragazzi in gamba e vogliamo crescere tutti insieme». 
A lei chi ha trasmesso la mentalità giusta? 
«Al Mondiale 2006 stavo spesso con Zidane e ho capito come si comporta un campione e cosa bisogna fare per esserlo. Zizou è stato un esempio». 
Qual è la lezione che le ha insegnato il calcio? 
«Che un giocatore solo, anche il più bravo, non vince. Il gruppo è la forza di una squadra». 
È vero che dopo aver perso con il Genoa è venuto di notte a allenarsi al centro sportivo? 
«L’ho fatto perché ero arrabbiato e dovevo sfogarmi. Sono rimasto sino alle 4.30: corsa e cyclette ascoltando la musica. Così poi sono andato a letto e ho dormito. Il messaggio per i compagni deve essere chiaro: vincere e ancora vincere. Bisogna arrivare alle partite con lo stato d’animo giusto, sapendo di averle preparate bene». 
Come si trova con Montella? 
«È bravo e conosce bene il calcio. Quello dell’allenatore è un mestiere duro perché sono sempre sotto pressione e quando non arrivano i risultati vivono male. All’inizio abbiamo perso due partite e non è stato semplice». 
Lei è un po’ l’allenatore in campo... 
«Mi sento di poter assumere questo ruolo e credo sia importante anche per Vincenzo. Così posso aiutarlo». 
Chi è stato quello che ha più inciso nella sua carriera? 
«Senza dubbio Jupp Heynckes, un tecnico preparato e una persona come si deve. Con lui e il suo staff funzionava tutto a meraviglia». 
Dove può arrivare la Fiorentina? 
«Dobbiamo pensare partita dopo partita. Ma sono convinto che possiamo fare una bella stagione. Le vittorie di questo ultimo periodo ci aiuteranno, permettendoci di lavorare con più serenità«. 
Lei ha giocato in tanti grandi stadi, i più belli del mondo. Quale le è piaciuto di più? 
«San Siro che mi ha applaudito...». Ride. 
Anche Firenze vuole lo stadio nuovo. 
«Non è una missione facile, ma sarebbe importante e aiuterebbe il club a espandersi. Mi piacerebbe giocare nel nuovo impianto...». 
Ma sino a che età vuole continuare? 
«Non lo so. Intanto due anni vanno bene, poi vediamo. Sono venuto qui perché ho fame e voglio riuscire a vincere qualcosa. Ma il futuro non si può prevedere». 
Che impressione le ha fatto il presidente Commisso? 
«Lui e Joe (Barone ndr), sono persone sincere. E non false. Persone con un grande cuore. Per me è importante. Gente vera. E anche io sono vero». 
E quando deciderà che è l’ora di smettere, vuole restare nel calcio? 
«Mi piacerebbe, vorrei lavorare con i giocatori, aiutarli». In quel momento entra nella stanza Daniele Pradè, lo abbraccia e gli stringe la mano: «Affare fatto Franck, sarai il mio nuovo mister». Ridono tutti. Ribéry è un uomo felice. E realizzato.