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 2019  ottobre 14 Lunedì calendario

La tv raccontata da Aldo Grasso in tre volumi

Può un’enciclopedia in tre volumi (di mille e quattrocento pagine) trasformarsi in un piacevole libro di lettura? Sì, se l’autore è dotato di cultura e buona capacità di scrittura. La Storia critica della televisione italiana di Aldo Grasso (con la collaborazione di Luca Barra e Cecilia Penati, il Saggiatore) è da assaporare predisponendosi a leggerlo per intero. Grasso segue dichiaratamente le orme di John Ellis che suddivide la storia della televisione in tre grandi epoche: l’età «della scarsità», quella «della disponibilità» e quella «dell’abbondanza». La prima, che inizia negli anni Cinquanta è la stagione in cui la tv – in mano qui in Italia a una élite fanfaniana (con innesti liberali) guidata da Ettore Bernabei – «rispecchia lo spirito di una borghesia medio-alta e si rivolge a quella stessa borghesia, la sola in grado di acquistare il costoso apparecchio». Poi l’immenso successo di Lascia o raddoppia? amplia smisuratamente il pubblico. È Mike Bongiorno, il mago venuto dagli Stati Uniti, l’uomo che cambia la storia della televisione. La trasforma in qualcosa di familiare anche per chi non possiede un televisore e segue il suo programma nei bar. Dopo di lui, Mario Riva ripeterà l’«operazione Bongiorno» con Il Musichiere. Sarà poi la volta di Campanile sera con Enzo Tortora. Di questo ampliamento del pubblico beneficeranno Mario Soldati con il Viaggio lungo la valle del Po alla ricerca dei cibi genuini oltreché il duo Salvi e Zatterin con la «Donna che lavora». Il definitivo sfondamento arriverà con lo show di Sacerdote e Falqui Studio Uno («di rara eleganza espressiva», annota Grasso) e alcune eccellenze della comicità: Ugo Tognazzi e Raimondo Vianello in Un, due, tre, Vittorio Gassman nel Mattatore, Walter Chiari, Gino Bramieri. Assai innovativo sarà Senza rete di Enzo Trapani, fondamentale per le carriere di Enrico Montesano, Oreste Lionello e Paolo Villaggio. Il tutto arricchito dagli «sceneggiati» di Sandro Bolchi e Anton Giulio Majano (tra i principali protagonisti: Alberto Lupo), dalle divertenti «inchieste» di Enzo Biagi, Ugo Gregoretti e Nanni Loy, dallo sport (da Processo alla tappaa Novantesimo minuto), da presentatori del calibro di Corrado, Enza Sampò e, già sul finire di questa era, il giovane Pippo Baudo.
La seconda epoca viene fatta «simbolicamente» partire dai Promessi sposi del 1967. Nei panni di Lucia, la giovanissima Paola Pitagora ha un successo strepitoso. È il momento in cui c’è un televisore (quasi) in ogni famiglia. Grandi protagonisti dello svecchiamento in questo trentennio, Renzo Arbore, Gianni Boncompagni, Angelo Guglielmi, Raffaella Carrà, Sandra Mondaini, Maurizio Costanzo, Sandro Curzi, Piero Angela (sulle cui orme si muoverà, in tempi successivi, il figlio Alberto). A partire dalla metà degli anni Settanta si affiancherà alla Rai la tv di Silvio Berlusconi che però si avvarrà prevalentemente di «importazioni» dalla televisione pubblica. In compenso il berlusconiano Drive In di Antonio Ricci viene considerato da Grasso «l’unico vero varietà innovativo degli anni Ottanta»; su Drive In, ricorda Grasso, a suo tempo la critica si divise tra il giudizio di Giovanni Raboni (positivo) e quello di Umberto Simonetta (critico). Aveva ragione Raboni. Grasso non è indulgente con Maurizio Costanzo, a cui concede però di aver dato vita, con Bontà loro, al «prototipo di un fenomeno destinato a dilagare e a diventare modello di ogni discorso televisivo: il bisogno di confessarsi». Al Costanzo intervistatore Grasso riconosce il merito di aver imparato (e insegnato) a documentarsi sugli ospiti così da essere «pronto a giocare a sorpresa» quando intuiva che un invitato stava «bluffando». Del tutto positivo è invece il giudizio sullo straordinario Beppe Viola.
Tre quarti dei volumi di Storia critica della televisione italiana sono dedicati – ovviamente – a trasmissioni di spettacolo e di sport, il core business della tv pubblica e privata. Ma non vengono trascurati – ed è un pregio dei tre volumi – i programmi a carattere giornalistico. Al Bruno Vespa di Porta a porta, già direttore del Tg1, viene riconosciuto di essere riuscito ad avvicinare il grande pubblico al Palazzo, facendo conoscere i politici come fossero «vicini di casa». Non poco. Il campanello di Vespa, «la porta, le seggiole bianche, l’ampollosa cerimoniosità, diventano parte del paesaggio televisivo, la “terza camera” del Paese, offrendo un approdo confortevole a politici di ogni estrazione che affollano numerosi e felici la trasmissione». In tempi successivi, alla politica Vespa affianca lo spettacolo, temi da «tv di servizio», anticipazione di programmi televisivi destinati a un pubblico vasto. La idea vespiana è che «anche Valeria Marini possa dire la sua sulla Costituzione», ironizza Grasso. Enrico Mentana (proveniente da una esperienza Rai) è il fondatore del Tg5 nella tv berlusconiana: Grasso valuta positivamente che Mentana non sia «corso dietro alla chimera dell’invenzione del linguaggio giornalistico (come molti direttori di tg amano sostenere)» e si sia piuttosto preoccupato «del ben più temibile fantasma dell’attendibilità». In questo modo il suo telegiornale «è diventato appuntamento irrinunciabile». Rimasto tale anche su La7.
Il Giovanni Minoli di Mixer che «introduce, collega i servizi e sostiene il velocissimo e frammentato ritmo della trasmissione» è parso a Grasso un modernizzatore del linguaggio televisivo. Anche se il difetto di Mixer fu che, pur mutando confezione e contando su collaboratori di livello (Aldo Bruno, Giorgio Montefoschi coautori in una fase iniziale), rimase «sempre una linea sotto la sua ambizione». A Michele Santoro (associato, nella fase iniziale, a Giovanni Mantovani) viene attribuito il merito di aver creato con Samarcanda il «salotto dell’opinione funerea, sempre tenacemente faziosa (il bello della trasmissione)», la risposta a un Mixer ormai «patinato e svigorito». Santoro, diversamente da Minoli, «cerca di evitare le interviste concordate e punta sull’immediatezza». Sua è «la vera invenzione del giornalismo televisivo degli anni Ottanta: la diretta fa esplodere le situazioni, le porta al calor bianco». A differenza dei giornalisti suoi coevi, non vuole piacere, anzi si propone come «uno dei volti più “antipatici” della tv». Ma questo è un suo punto di forza: «Sempre in piedi e in movimento, traduzione prossemica di un’informazione concepita come work in progress» Santoro si presenta «voglioso di impartire la linea giusta». Anche se, in tempi successivi, ha teso ad «ammorbidirsi».
Altrettanto forte è considerata la personalità di Giuliano Ferrara. Nel novembre 1987 parte il suo Linea rovente, una sorta di «paradossale processo televisivo» (ideato da Lio Beghin e curato da Anna Amendola). Ferrara inaugura una «formula che diventerà cifra stilistica: la spettacolarizzazione del dibattito condotto con ostentata aggressività, l’inchiesta giornalistica sviluppata in forma di talk show, la faziosità rivendicata come inderogabile principio deontologico… il divertimento per il pubblico è sicuramente garantito, non si diverte l’imputato (il primo è lo psicanalista Armando Verdiglione) che raramente riesce a far fronte al fiume delle accuse». Terzo conduttore simile, Gad Lerner, che, in piena Tangentopoli, introduce con Milano, Italia uno dei pochi «talk di approfondimento e riflessione». Dopo le prime puntate «di rodaggio» Lerner dimostra la «capacità di controllare o stimolare il pubblico, secondo le esigenze degli argomenti affrontati e dello spettacolo». Il suo successore, Gianni Riotta, appare a Grasso «più freddo», mosso dall’eccessivo «desiderio di tenere alto il tono della trasmissione». Infine è la volta di Enrico Deaglio, il quale impone una cifra che non ha lasciato a Grasso un grande ricordo: sempre meno dibattito e sempre più «ragionamento». Forse troppo.
Buona è la considerazione dell’autore della Storia critica della televisione italiana nei confronti di Lucia Annunziata e della sua Linea 3 (da un’idea di Giovanni Tantillo). Alle prese con opinioni e fatti, «Annunziata dimostra la capacità di cogliere subito il succo della questione, di sfrondare i problemi della verbosità superflua, di incalzare gli ospiti con pertinenza e con domande dirette in stile quasi radiofonico, senza corteggiare lo studio, tanto meno il pubblico che telefona». È in grado di padroneggiare temi di politica estera (ad esempio nelle quattro puntate dedicate al conflitto in Bosnia), i grandi processi che hanno caratterizzato il passaggio dalla prima alla seconda Repubblica, e i confronti tra i leader politici. Conduttrice e stile di conduzione confluiscono nel 1996 nella formula di Tg3-Prima serata. Con Annunziata ci sono Bianca Berlinguer, Maurizio Mannoni e Federica Sciarelli: «Ma il successo non si ripete, un po’ per l’affievolirsi dell’animosità e delle passioni politiche, un po’ per la percettibile insofferenza dell’Annunziata, chiamata nel frattempo alla direzione del Tg3».
L’autore ha un buon giudizio nei confronti di Serena Dandini la quale, dal 1989, con La tv delle ragazze assieme a un «allegro gineceo» (prime tra tutte, le coautrici Valentina Amurri e Linda Brunetta) ha però il «vizio di sentirsi più intelligente del suo pubblico». Esplicita la stima per Milena Gabanelli con il suo Report, al punto che Grasso si chiede perché, anno dopo anno, le inchieste più coraggiose siano state condotte da lei e non dai telegiornali; come mai «l’idea classica, se si vuole un po’ romantica del giornalismo (il controllore del buon funzionamento delle istituzioni)» è stata affidata a un’«esterna»? A proposito di Gigi Marzullo e del suo Mezzanotte e dintorni (iniziata nel 1989), a Grasso appare ancora oggi «misterioso il motivo che spinge personaggi di ogni tipo e provenienza a passare sotto l’inesorabile mannaia della banalità che scaturisce dalle sue domande». Più disponibile è nei confronti di Gianfranco Funari con Aboccaperta, sperimentato su Telemontecarlo e trasferito poi sugli schermi di Raidue. A Grasso piace la capacità funariana di «rinfocolare una discussione che langue» e di cavar di bocca agli ospiti «qualunque scempiaggine». 
La terza stagione, dal 2000 ai giorni nostri, è quella in cui in ogni casa c’è più di un televisore (assieme a computer, tablet, smartphone). Sul teleschermo è il momento di nuovi giganti: Fiorello, la Gialappa’s, Maria de Filippi, Paolo Bonolis, Gerry Scotti. Grasso è interlocutorio nei confronti di Fabio Fazio, al quale riconosce di essersi saputo conquistare un grande prestigio tanto da aver potuto determinare il successo di libri e altri prodotti culturali e mediali «con una sola ospitata» a Che tempo che fa. Di Giovanni Floris Grasso ricorda che agli inizi di Ballarò aveva «l’aria del bravo ragazzo, politicamente corretto, moderato, demagogico quanto basta, un peso leggero» con il difetto «di parlare un po’ troppo, interrompere di continuo gli ospiti togliendo alla discussione passionalità e chiarezza». Ma gli riconosce di aver poi fatto crescere la trasmissione fino a farla diventare «un punto di riferimento settimanale del dibattito politico». Buono è il suo giudizio su Lilli Gruber. Idealmente questa terza stagione della tv vien fatta partire dal Grande Fratello. Condotto da Daria Bignardi, capace di «raffreddare una materia già incandescente», il Grande Fratello pone lo spettatore al cospetto di un laboratorio multiforme e multimediale in cui «ad ogni pubblico corrisponde una modalità di fruizione». Per molti quel programma «è un gioco di società (e di ruolo), un divertimento da spartire con i colleghi d’ufficio»; per altri «una soap opera senza trama, un talk senza conduttore padre padrone, un flusso di coscienza che finalmente si sposa con il flusso televisivo, un notevole salto in avanti della tv»; per altri ancora «una fucina di mascalzonate da svergognare in pubblico». Tutte (o quasi) le trasmissioni dall’inizio di questo millennio hanno «rubato» qualcosa al Grande Fratello. Magari inconsapevolmente. Questo e moltissimo altro si scopre leggendo il libro di Grasso. Si raccomanda la pazienza e la delibazione pagina dopo pagina. Il godimento è assicurato.