La Stampa, 14 ottobre 2019
In 30 anni spariti seimila sacerdoti
«Neanche un prete per chiacchierar», cantava Adriano Celentano. Cinquant’anni dopo, per migliaia di parrocchie italiane la strofa di «Azzurro» si è rivelata profetica. Ci sono sempre meno sacerdoti e meno parroci all’ombra dei campanili. Hanno le agende sempre più piene. Sono percepiti «distanti», difficilmente raggiungibili dalla gente. In tre decenni il corpo sacerdotale si è ridotto del 16%. Ed è sempre più anziano. Le conseguenze sono sotto gli occhi di tutti: i fedeli che praticano - peraltro in calo costante pure loro - devono abituarsi alla scomparsa della tradizionale figura del parroco che, oltre a essere guida unica della chiesa vicino a casa, si occupa in prima persona dei sacramenti e del culto. E non solo: anche dell’oratorio e delle attività sociali. Quella sorta di punto di riferimento comunitario di democristiana memoria è ormai raro. Il modello don Camillo, reso immortale dai romanzi di Guareschi e dal volto di Fernandel, è in costante declino. Lo dicono i dati sugli ultimi trent’anni (1990-2019) dell’Istituto centrale per il Sostentamento del Clero, forniti a La Stampa da Franco Garelli, sociologo delle Religioni.
A maggio 2019 erano presenti in Italia 32.036 sacerdoti diocesani, circa un prete ogni 1.900 abitanti. Nel 1990 il clero diocesano era composto da oltre 38mila tonache.
Così in un terzo delle 25.610 parrocchie italiane in trent’anni si è passati da un unico pastore a una gestione collegiale di più preti occupati in più parrocchie, oppure a un unico parroco condiviso con altre parrocchie. È il vuoto che preoccupa la Chiesa. Ha portato «disorientamento nei fedeli, soprattutto i più anziani», rileva Garelli. Di sicuro, è una novità «che interpella la fede, perché la rende meno comoda». Ma allo stesso tempo «il laicato è chiamato ad abituarsi e anche a valorizzare queste dinamiche nuove; a non pensare di avere la chiesa sotto casa, quando si fanno chilometri ogni settimana per andare al supermercato, e ogni domenica per la gita fuori porta».
Preti sempre più vecchi.
Anche perché l’altro processo che segna la Chiesa è l’invecchiamento. «Se per convenzione - spiega Garelli - consideriamo non più impiegabili in un ruolo pastorale ordinario i preti con più di 80 anni, emerge uno scenario ancora più critico». Peggio se «operiamo il confronto tra i sacerdoti con meno di 70 anni: la riduzione risulta del 31%. I preti con più di 70 anni erano il 22,1% nel 1990, oggi sono il 36%».
Altre prospettive che confermano il trend: la quota del clero «giovane» e l’età media. I preti con meno di 40 anni erano il 14% 29 anni fa, mentre oggi «rappresentano non più del 10%». E nel 1990 in media un sacerdote aveva 57 anni, oggi 62 anni. «Siamo di fronte a un clero in età da pensione, se applichiamo a questa categoria criteri che valgono per la maggior parte dei lavoratori».
La crisi colpisce molto più il Nord, e in parte il Centro, che il Sud e le Isole. La palma nera «se la contendono il Piemonte (pur terra dei santi sociali), la Liguria e anche il Triveneto, che proviene da una lunga tradizione cattolica». In 30 anni queste regioni hanno perso un un terzo del loro clero. Il segno meno coinvolge anche la Lombardia (-19%), «dove il cattolicesimo si mantiene vivace e organizzato, con i suoi oratori e un volontariato di prim’ordine». Varie regioni del Sud (Calabria, Campania, Puglia, Basilicata) invece sono in controtendenza, «hanno oggi più clero e vocazioni del passato, in media sono chiese più giovani e vivaci». Insomma, col passare degli anni, il clero diocesano si sta «meridionalizzando».
Il futuro delle parrocchie.
La crisi di numeri sembra inesorabile. È in gioco il futuro delle parrocchie senza preti. Molti sacerdoti devono guidare due o tre parrocchie, quando va bene. Quando va male, anche 19, come don Gianni Poli nella diocesi di Trento. In loro aiuto ci sono alcune migliaia di viceparroci, ma la coperta resta corta. Non è più pensabile mantenere in vita tutta la rete capillare di parrocchie a cominciare dall’appuntamento fondamentale: la messa. Non è più garantita in orari - e in chiese - agevoli per tutti.
Già da diversi anni le diocesi si sono attrezzate: c’è chi ha favorito l’arrivo di seminaristi da altre nazioni, in particolare da Africa, America Latina e Asia. E c’è chi ha sperimentato le unità pastorali (strategia per esempio del cardinale Carlo Maria Martini a Milano), mettendo insieme alcune parrocchie e ponendole sotto la responsabilità di un unico parroco. Le unità pastorali sono state anche trasformate in comunità pastorali: la parrocchia resta, con un prete che vi risiede, ma è inserita in una comunità che raggruppa diverse parrocchie sotto un responsabile.
Per monsignor Domenico Sigalini, presidente del Centro di Orientamento pastorale, la scelta di accorpare più parrocchie «va vista come decisione missionaria, con una maggior responsabilizzazione dei laici». Ormai imprescindibile. Oggi un parroco vive ogni giornata facendo continuamente «gli straordinari». La domenica celebra varie messe, in luoghi diversi, spesso correndo da una chiesa all’altra. E poi ci sono i battesimi e i funerali. I matrimoni. I gruppi di preghiera e di volontariato. Le confessioni. I malati da visitare. Il catechismo. Riunioni su riunioni. I giovani e l’oratorio da seguire. Senza contare tutte le incombenze amministrative e burocratiche. Ecco perché molti parroci non rispondono più al telefono, non riescono ad accettare un invito a cena di qualche famiglia o ad ascoltare chi ha bisogno di conforto.
I giovani amano l’oratorio.
In questi giorni in Vaticano, al Sinodo per l’Amazzonia, si discute la possibilità di ordinare in zone remote dei «viri probati», uomini anziani e sposati di «provata fede» per rimediare alla carenza del clero. C’è chi parla di sacerdozio femminile, e chi invoca maggiore spazio e responsabilità ai laici. In ogni caso, per Garelli la prima sfida riguarda «la domanda religiosa e sociale che gli italiani continuano a rivolgere agli ambienti ecclesiali». Secondo le indagini del sociologo infatti «parrocchie e oratori continuano a essere luoghi di presenza pubblica di rilievo». Intanto, più del 20% della popolazione dichiara di andarci con una certa regolarità, «e sono molti di più i praticanti discontinui o irregolari». La maggioranza continua a rivolgersi alla Chiesa locale «per i "riti di passaggio" (dal battesimo al funerale)». Inoltre, la «socializzazione dei giovani negli ambienti ecclesiali è ancora una prassi diffusa, coinvolge una quota rilevante di bambini e adolescenti». Oltre che per il catechismo e la preparazione ai sacramenti, anche per «momenti di svago e sport, o per impegni associativi». Il 60% degli attuali 18-29enni italiani ha frequentato i cortili dell’oratorio. Pur in un contesto in cui è sempre più diffusa «l’idea che la parrocchia sia una formula datata», il 25% della popolazione parla di tanto in tanto con una figura religiosa di questioni personali. Ecco perché urgono preti con una vocazione che non «li porti a stare sul "monte", ma a vivere a stretto contatto con la gente», in modo da continuare a essere «una presenza spiritualmente feconda pur dentro il "rumore" della città e dei molti impegni».