il Giornale, 14 ottobre 2019
Lunga intervista a Tim Parks
Per molti inglesi e americani le parole che arrivano dall’Italia sono le sue. Tim Parks, nato a Manchester 64 anni fa, ha tradotto per una collana come Penguin Classics le opere di Niccolò Machiavelli e Giacomo Leopardi. E poi ancora Alberto Moravia ed Eugenio Montale, Italo Calvino e Antonio Tabucchi. I suoi libri, sulle esperienze di un inglese trapiantato nella Penisola, hanno avuto successo in mezzo mondo. Uno tra di essi, Un’educazione italiana, è stato di recente inserito dal quotidiano The Guardian, nella lista dei dieci libri che meglio spiegano il nostro Paese. Insieme, tanto per capirci, al Gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa e agli Italiani di Luigi Barzini.
Per molti anni Parks ha abitato a Verona, oggi vive a Milano, dove fino all’ultimo anno accademico ha insegnato «Traduzione specialistica e letteraria» allo Iulm. «Ormai sono qui da una vita, quasi quarant’anni», racconta con una cadenza anglo-sassone appena accennata.
Un periodo più che sufficiente per averne abbastanza. Lei dell’Italia non è ancora stufo?
«Ma no, sono sempre affascinato, non basta una vita per capire un Paese e una cultura. Le racconto l’ultima cosa che ho fatto: con la mia compagna ho ripercorso tappa dopo tappa la marcia di Garibaldi da Roma a Cesenatico dopo la caduta della Repubblica romana del 1849. Sono più o meno seicento chilometri: lui è partito il 2 luglio, io pochi giorni dopo e lungo il percorso abbiamo trovato anche 38 gradi. È stato il modo per rivivere un momento del Risorgimento in cui Garibaldi pensava, a torto, di poter immediatamente suscitare una nuova fiammata rivoluzionaria».
Ma dalle nostre parti come è capitato?
«Ho conosciuto la mia ex moglie, italiana, negli Stati Uniti. Eravamo ad Harvard, io studiavo per un Master in letteratura americana, lei insegnava francese. Ci siamo trasferiti in Inghilterra per qualche mese, ma non le piaceva. E allora abbiamo scelto Verona, anche se lei in realtà è di origine abruzzese. Era il 1981, cercavo un posto dove avrei potuto scrivere con tranquillità e l’ho trovato».E ha trovato anche un soggetto ideale per i suoi libri: gli italiani.
«A dir la verità la prima cosa che ho scritto non c’entra nulla col vostro Paese. È un romanzo, Lingue di fuoco, pubblicato in Italia da Adelphi, che nasce dalla mia esperienza familiare. Mio padre era un pastore protestante, coinvolto nel movimento carismatico, con interessi come la possessione e l’esorcismo. Di questi temi parla il libro. Solo in un secondo tempo ho iniziato a scrivere sulle mie esperienze a Verona. In Inghilterra era uscito un libro, Un anno in Provenza, che raccontava la vita di un inglese in Francia e che aveva avuto un buon successo. Mi hanno chiesto qualche cosa di analogo. Così ho scritto Italian Neighbours (da noi è tradotto con il titolo Italiani; ndr). Pensi che hanno avuto dei problemi ad accettarlo, volevano qualche cosa di più pittoresco. Col tempo il libro si è dimostrato un long seller e per fortuna continuo regolarmente a ricevere i diritti d’autore. Adesso siamo sopra il mezzo milione di copie».
Poi è arrivato «An italian education», su come gli italiani diventano, sin da piccoli, italiani.
«Mi rendevo conto che attraverso la mia esperienza potevo raccontare i rapporti tra individuo e società. E in Italia questi rapporti si giocano in maniera fondamentale sul concetto di appartenenza. Qui non si fa altro che formare e sciogliere gruppi; si condivide e ci si tradisce. Un titolo come Jack frusciante è uscito dal gruppo coglie perfettamente l’essenza della vita nella Penisola. Natalia Ginzburg in Lessico familiare racconta l’appartenenza a una famiglia e la rivendicazione dell’appartenenza di questa famiglia, di religione ebraica, alla cultura italiana. Questo senso dell’identità di gruppo va al di là e supera la distinzione morale tra bene e male. L’ho visto quando mi sono occupato della famiglia dei Medici».
Cioè?
«Sui Medici ho scritto un libro. Anche per loro l’accumulo di un grande ricchezza, condannato dalla Chiesa cattolica, diventa giustificato se avviene nel nome della famiglia. In questo caso è del tutto lecito e positivo».
Nei suoi libri lei racconta la sua iniziazione ai misteri della Penisola, con un umorismo che tanto per non sbagliare si può definire «british».
«Questa resta una delle differenze tra Italia e Inghilterra. L’umorismo italiano tende ad arrivare agli estremi, fino alla beffa o all’esagerazione buffonesca. In Inghilterra funziona di più se il lettore si sente appena stuzzicato. Quasi non bisogna far capire se stai scherzando o no».
In Italia è iniziata anche la sua carriera di traduttore...
«Sì, con qualche fatica. Prima mi sono buttato sulle traduzioni commerciali, indispensabili per mantenermi. Per 10 anni mi sono occupato di manuali per macchine che lavoravano il marmo, per l’Unione europea di norme sulla lavorazione industriale di pietre e granito. Ho tradotto davvero di tutto: cataloghi d’arte, manuali per forni industriali e una rivista di scarpe. Poi una casa editrice inglese che da anni letteralmente tempestavo di richieste di lavoro, mi ha chiesto di tradurre La Cosa di Moravia. Da li è iniziata l’attività in campo letterario».
Infine sono arrivati i saggi sulla letteratura italiana
«La New York Review of Books mi ha chiesto di scrivere qualche cosa. Poi mi hanno affidato una nuova traduzione dell’opera di Eugenio Montale. Con generosità hanno aspettato un anno e più perchè finissi il lavoro e mi sentissi pronto. Adesso scrivo un po’ per loro e un po’ per la London Review of Books. E di recente ho raccolto i saggi in un libro A literary tour of Italy, Tour letterario d’Italia, chissà se un giorno uscirà anche in italiano. Ci sono gli autori di cui mi sono via via occupato: da Dante e Boccaccio fino alla Morante e Tabucchi».
Per uno straniero chi è il più comprensibile tra gli autori italiani?
«A livello linguistico il più facile e lineare è Moravia, sono pochi i nodi che è difficile sbrogliare. Si nota che è influenzato dagli autori francesi e inglesi. All’altro estremo c’è la Morante. Pavese può rivelarsi un osso duro per il suo particolare miscuglio tra lingua e dialetto. Calvino è impegnativo perchè usa un italiano molto ricercato, soluzioni linguistiche raffinate. Ho tradotto la Strada di San Giovanni e ad un certo punto c’è una frase unica che procede quasi all’infinito con un groviglio di subordinate a apposizioni. Una categoria a se’ è Gadda, che ha una lingua particolarissima. E per cui in inglese esistono solo traduzioni su cui preferisco non pronunciarmi».
A forza di stare in Italia, occupandosi non solo di letteratura, lei è diventato cittadino onorario di Verona. Dietro c’è una storia curiosa.
«È successo che il Daily Mail mi ha chiesto un articolo in cui dovevo dire che Verona era un città in piena decadenza, dove tutto era brutto e negativo. Ho ricostruito dopo che il bersaglio non era tanto la città, quanto il fatto che il presidente Sarkozy, una bestia nera del giornale, fresco marito di Carla Bruni, aveva deciso di trascorrere in zona parte della luna di miele. Comunque sia, ho detto che io a Verona stavo benissimo da 25 anni e non mi interessava scrivere nulla del genere».
E quindi?
«L’articolo è stato affidato a un altro autore e pubblicato. A quel punto mi ha chiamato l’Arena, il quotidiano di Verona, che mi ha chiesto di commentarlo. Io ovviamente ero ben informato e ho girato loro la mail che mi era arrivata dall’Inghilterra con le richieste del giornale. Loro l’hanno resa pubblica. Qualche giorno dopo mi ha telefonato il sindaco per annunciarmi, appunto, la cittadinanza onoraria. Mi ha fatto molto piacere, anche se, ridendo, ho fatto osservare che il riconoscimento mi arrivava per qualcosa che non avevo scritto, mentre tutti i libri che avevo pubblicato non erano serviti a nulla».
Lei con Verona ha comunque un rapporto particolare. Per un anno ha seguito gli ultrà della squadra di calcio e ci ha scritto un libro «A season with Verona». Che in Italia è diventato «Questa pazza fede. L’Italia raccontata attraverso il calcio». Che cosa racconta il calcio italiano?
«Il calcio è il luogo dove si mette in scena il gioco dell’appartenenza. Non a una famiglia, ma a un gruppo, secondo le forme del teatro o del circo. Ma per un antropologo le osservazioni possono essere infinite. Per esempio sull’espressione delle radici e dell’identità. Quando andavamo a giocare a Vicenza le Brigate Gialloblù avevano uno striscione che tornava ai tempi delle Signorie: «Dal 1300 quando gli Scaligeri arrivano a Vicenza la città trema». Oggi di calcio non mi occupo più molto, ma mi piace dire che al Bentegodi ero già di casa quando il Verona ha vinto il suo scudetto. Anche se nel libro facevo delle osservazioni non proprio politicamente corrette. Per esempio sui rapporti tra tifosi e polizia e sulla tensione con un certo spirito bigotto. La città era conservatrice e cattolica, ma in Curva Sud la bestemmia era di casa».
Sembra tutto positivo. Ma ci sarà qualche cosa che l’avrà amareggiata in questi anni...
«Ovvio, dall’Italia ho ricevuto anche delusioni».
Per esempio?
«Mi ha deluso il mondo dell’Università. Mi sembra abbia problemi enormi: l’intero sistema di reclutamento, la struttura del dottorato, la presenza dei candidati interni... Anche qui, gioca probabilmente il tema dell’appartenenza: gli italiani sono ossessionati dal tradimento, quindi devono scegliere e circondarsi di persone fidate, dei propri uomini. Questo vale anche per i professori universitari».
Dopo la Brexit lei scrisse che doveva scegliere se prendere la cittadinanza italiana. Ha deciso?
«Sì, ho fatto domanda. Ma adesso i tempi burocratici sono raddoppiati, da due a quattro anni. Quindi sono in uno stato di sospensione».
Da inglese che cosa pensa dell’addio di Londra?
«Forse al referendum avrei votato per rimanere nella Ue, nella speranza un po’ ingenua che migliorasse. Di come è oggi non sono affatto un fan. Se l’Europa diventasse davvero una federazione, se si potesse pensare che un tedesco venga eletto in Italia o viceversa un italiano in Germania e che poi chi è eletto facesse l’interesse dell’Europa nel suo insieme e non della sua nazione di provenienza, se ne potrebbe parlare».
E invece?
«Invece ho visto come si sono svolte le trattative per l’uscita della Gran Bretagna. Ho visto ridurre a una colpa la posizione di chi non era d’accordo con Bruxelles. E devo dire che i primi a non accettare un punto di vista diverso dal proprio sono i tedeschi, sempre pronti a bacchettare gli altri».
Lei ha tre figli, nati qui. Sono italiani o li ha fatti crescere inglesi?
«Con loro ho sempre cercato di parlare inglese e ogni anno andavamo in Gran Bretagna. La più piccola è ancora all’Università qui in Italia, e gli altri due sono all’estero. Ma come tanti ragazzi italiani».
Cosa intende?
«Cercavano opportunità migliori, che qui, con dispiacere, non hanno trovato. Una fa la psicologa in Galles, dopo essersi laureata a Padova. Il maschio si è laureato qui in biologia molecolare e si è trasferito all’estero, sempre in Gran Bretagna, per un dottorato. Doveva andare negli Usa, era già tutto organizzato, quando gli hanno detto che per la crisi finanziaria, stiamo parlando del periodo intorno al 2008, non avevano più fondi. Si è trovato a terra da un giorno all’altro. Gli ho suggerito di fare richiesta in Inghilterra. Era scettico: non mi hanno mai visto, non sanno nemmeno chi sono. Beh, hanno guardato il curriculum e l’hanno preso in due delle tre università che aveva interpellato. Ecco, questo in Italia difficilmente sarebbe successo».