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 2019  aprile 28 Domenica calendario

Maurizio De Giovanni e Alessandro Gassman su "Il silenzio grande"

Napoli 1969. Una villa lussuosa a Posillipo. Una famiglia molto benestante, un padre scrittore importante, sua moglie, due figli adulti, una cameriera. Un quadro domestico finora rassicurante, che però sta attraversando un momento drammatico. Il silenzio grande è la pièce con cui Maurizio de Giovanni, scrittore e sceneggiatore di successo, esordisce in palcoscenico. Lo spettacolo debutta l’8 giugno al Teatro Trianon-Viviani, nell’ambito del Napoli Teatro Festival Italia con la regia di Alessandro Gassmann.

«In verità — precisa de Giovanni — non è proprio un esordio assoluto, pur considerandolo tale, anzi lo considero il migliore dei miei testi, anche dei romanzi. L’anno scorso, infatti, mi sono cimentato in una commedia, Ingresso indipendente, ma stavolta l’opera è molto più impegnativa, soprattutto per l’argomento trattato: è il mio primo vero debutto, soprattutto perché lo spettacolo è firmato da un regista con cui lavo roda anni in televisione, mach e perla prima volta ha accettato dimettere inscena una mia drammaturgia».

Il personaggio si chiama Valerio Primic e lo impersona Massimiliano Gallo: autore di romanzi famosi, acclamato alivello internazionale, esponente dell’intellighenzia e vincitore dei premi letterari più prestigiosi, il capofamiglia non riesce però da dieci anni a sfornare altri successi editoriali, anzi, non riesce proprio a partorire nulla dalla sua fantasia. Vive arroccato nel suo studio, circondato da una monumentale libreria e non scrive più: la sua invidiabile produzione s’è arenata, lui stesso è naufragato in una sorta di solitudine interiore. I soldi però cominciano a scarseggiare e occorre vendere la villa. Inizia così, nello studio del patriarca, un andirivieni di familiari che, a turno, si recano da lui, contrario alla vendita, per convincerlo, esponendo i propri svariati problemi, nella speranza di trovare una soluzione.

«È un uomo, e un padre — riprende de Giovanni — decisamente ingombrante, per la sua mole intellettuale e l’indiscussa notorietà. Non accetta di lasciare quella casa che rappresenta indubbiamente uno status sociale, ma è anche il luogo dov’è nato l’amore con la moglie, e dove sono cresciuti i figli... una specie di rifugio dell’anima, al quale non vuole rinunciare. Una storia familiare e di relazioni padri-figli, per la quale mi sono inizialmente ispirato proprio al rapporto tra Alessandro Gassmann e il padre Vittorio, che non ho mai conosciuto di persona ma l’ho conosciuto, eccome, attraverso la sua sconfinata cinematografia e attraverso alcuni racconti del figlio: un papà con un’enorme personalità... non sarà stato molto facile confrontarsi con lui anche sul piano artistico». Conferma Alessandro: «Sì, non è stato facile, ma una grande scuola. Il suo insegnamento più importante? Non dare nulla per scontato e non essere mai contenti dei risultati raggiunti, inseguire sempre il meglio».

È dovuta a questa ispirazione anche la scelta del cognome Primic. «È straniero come Gassmann. E poi mio padre — ricorda Alessandro — ha avuto varie mogli straniere. Mia madre è francese, e la moglie di Primic, Rose, che Stefania Rocca porta in scena, è di origini americane. È pure evidente che io ho avuto un genitore dotato di un talento piuttosto ingombrante, dunque ci sono notevoli similitudini, tuttavia la pièce di Maurizio va oltre l’ispirazione alla mia storia personale...». Sì, ma lo scrittore ha immaginato il testo su misura per Gassmann. Interviene Massimiliano Gallo: «È stato Alessandro a propormi di assumere il ruolo destinato a lui. Me lo ha dato da leggere, poi mi ha detto: se accetti la proposta, io faccio la regia». Ammette il regista: «Stavolta ho preferito restare dietro le quinte. E guardi che non è solo una questione di impegni — cinema e tv — che non mi permettono di impegnarmi in una lunga stagione di tournée. In realtà mi piace dirigere gli attori straordinari che ho a disposizione: grazie a loro è come se interpretassi tutti i ruoli».

Aggiunge Massimiliano, figlio del celebre Nunzio Gallo: «Non potevo rinunciare a una proposta del genere. È vero, ho avuto anch’io un padre altrettanto impegnativo: da ragazzino lo vedevo più in televisione che a casa e, quando me lo trovavo davanti, mi appariva quasi più come una proiezione che una persona vera, in carne e ossa. Solo con il trascorrere degli anni ho compreso quello che avevo vissuto con lui, ma ho dovuto farmi aiutare da uno psicologo. Io ammiravo Nunzio come un mito e, quando ha iniziato a invecchiare, non riuscivo ad accettare di vederlo a casa come un uomo qualunque; per me era impossibile osservarlo mentre stava seduto sul divano davanti alla tv. Il padre che interpreto — continua l’attore — è consapevolmente distante da chi lo circonda. Solo disponendosi all’ascolto di quello che gli viene rinfacciato da moglie e figli, ne prenderà coscienza».

Insomma, questo spettacolo sembra un percorso di psicoanalisi collettiva. La vicenda rappresentata inizia in una stanza piena di libri, che alla fine apparirà completamente svuotata: emerge infatti un segreto inquietante, un colpo di scena, di quelli che de Giovanni è avvezzo ad amministrare nelle sue storie e che capovolge la situazione. La casa viene venduta. «Nella difficile trattativa — riprende l’autore — emerge il personaggio della cameriera Bettina (Monica Nappo): una donna semplice, ignorante, che tuttavia, con la sua saggezza napoletana, diventa un deus ex machina, svolgendo il delicato compito di ambasciatrice tra il padre, chiuso nella fortezza della sua alta cultura, del suo atteggiamento a tratti presuntuoso, e il resto della famiglia, che invece ha bisogno di un dialogo più spicciolo, pratico, quotidiano. Bettina è un ponte tra l’alto e il basso, tra le diverse istanze e necessità... E il titolo che ho scelto, Il silenzio grande — spiega —, si riferisce proprio a quelle reticenze, i piccoli silenzi, le incrinature che si aggregano nella mancanza di comunicazione, tramutandosi nel grande gelo di certi rapporti tra le pareti domestiche».

Coppia infallibile per la fiction I bastardi di Pizzofalcone, di cui sta per partire la terza serie, de Giovanni-Gassmann devono ora fare i conti con un rapporto di lavoro diverso. «Mi è già capitato di portare in scena un autore vivente — osserva il regista — e ho avuto sempre la fortuna di incontrare scrittori straordinari, da Massimo Carlotto a Claudio Fava, che mi lasciano libero di modificare, quando lo ritengo necessario, la parola scritta in quella detta». Scherza l’autore: «Vivente io? Mi sento sopravvivente... Credo nel rispetto dei ruoli, quindi so farmi da parte per lasciare al regista la libertà di interpretare il testo e, se necessario, tradirlo. Aggiungo che la messinscena di Alessandro ha largamente amplificato la mia drammaturgia: lo spettacolo è molto più bello di ciò che avevo scritto, e gliene sono grato». Accoglie il complimento Gassmann: «Il regista deve essere come il buon allenatore di una squadra di calcio: capire profondamente il significato dell’opera e sfruttare al massimo le capacità e possibilità espressive degli attori. Il fatto di essere io stesso attore mi aiuta a intercettare i meccanismi e a dare il meglio. Da mio padre ho ereditato l’orecchio, cioè l’attenzione al ritmo, alla musicalità della recitazione, per non scadere mai in spettacoli noiosi: a volte, come spettatore, a teatro mi annoio».

Perché de Giovanni, un giallista di successo, ha sentito la necessità di misurarsi con il palcoscenico? «Perché noi napoletani abbiamo il teatro nel sangue. La nostra città è stretta in una sedimentazione perenne di sentimenti, è già di per sé un palcoscenico, si presta ai conflitti, ai contrasti umani. E poi — conclude — il nostro modo di parlare e di gesticolare non è forse naturalmente teatrale?».