Libero, 13 ottobre 2019
Un’intervista degli anni ’80 di Feltri a Montanelli
Sapevo che Montanelli non è un uomo ordinario, ma non a questo punto. Forse quanto il mitico Longanesi, sul quale ha scritto, con la collaborazione di Staglieno, un libro che comincia a invadere le vetrine e avrà successo perché in quelle pagine il conte di Bagnocavallo è più vicino di quando era vivo: lui e la sua Italietta che non è cambiata, ed è come la nostra, meschina e piccolo-borghese, ambiziosa e bugiarda. L’anticamera del direttore del Giornale riserva la prima sorpresa, un merlo parlante. E il fatto eccezionale non è che parli, ma quel che può dire e ha detto. Dimora in una comune gabbia piazzata al centro della stanza, davanti alla scrivania della gentilissima segretaria. Sembra un uccello per bene, e lo sarà: ma che lingua. Mi ha accolto con un fischio poderoso da Tee in ritardo, e già questo era interpretabile come un brutto segno: forse suscitavo basso gradimento. Poi, cogliendomi alla sprovvista, mi ha chiesto: «Fischio bene?». Credevo scherzasse e sono stato al gioco. «Mica tanto», gli ho risposto. Non l’avessi mai detto. Con voce fredda e tagliente mi ha liquidato così: «Vai al diavolo». Giuro che sono rimasto male.
Che sia un volatile da guardia? Probabilmente è un test per selezionare i visitatori: quelli che lo superano, e non scappano, sono attrezzati per affrontare il più pungente e anticonformista, amato e odiato, dei giornalisti italiani. Cioè il più bravo di tutti. Mi sembra scortese domandare a Indro Montanelli ragione dell’impertinente pennuto; ma l’ho scoperta lo stesso con una piccola indagine di corridoio. È un merlo adottato, era di Angelo Rizzoli. Quando l’editore si assentò per i noti e dolorosi motivi, lo affidò a numero uno del Giornale, che lo portò nello studio. Perché successivamente sia stato trasferito in segreteria, questo non l’ho accertato, ma considerata l’originalità con cui sa intrattenere gli ospiti immagino che la sua attuale collocazione risponda a un sottile disegno del padrone: far capire ai nuovi venuti, con una burla innocente ma densa di significato, che lì si parla chiaro ed è gradita la sintesi.
Montanelli per fortuna, pur essendo schietto almeno quanto l’uccello, era molto più cordiale. Mi accoglie, se non esagero, con affetto. È altissimo, magro, gli occhi sono di quelli che non riescono a fissare, trapassano. Mi dà del tu, come usa nella categoria, col sottinteso che dovrei ricambiare. Ma continuerò con il lei. Saremo colleghi ma è meglio non montarsi la testa, finché ne rimane un briciolo. Ha 75 anni, più di cinquanta trascorsi nei giornali: migliaia di articoli e decine di libri; un primato di quantità e, soprattutto, di qualità. Glielo riconoscono perfino i nemici, e non ne ha pochi.
La prima volta che misi piede in una redazione, vent’anni fa, mi fecero scrivere tre o quattro volte la stessa notizia. Erano dieci righe e non andavano mai bene. Non volevo protestare, ma aspiravo a una spiegazione. Il capocronista non sollevò neppure lo sguardo dai fogli, mi disse: «Chi credi di essere, Montanelli?».
Adesso che ce l’ho qui davanti mi sembra uno normale: dove sarà andato a prendere tanta bravura? È vestito come un gentiluomo di campagna, tweed da ogni parte. La sua stanza è piccola, troppo piccola per essere quella del più grande. Assomiglia allo studio di un avvocato di provincia, raccolta e senza ombra di ostentazione
Comincia lui: «Allora, che cosa ti devo dire?».
Come mai proprio adesso un libro su Longanesi?
«Desideravo farlo da tempo, ma me ne mancava per un impegno di questa portata. Poi s’è offerto Staglieno che ha compiuto un lavoro ottimo: anche ricerche d’archivio, recupero di materiale. E allora s’è potuto fare. Ma non basta. Longanesi è complesso, non è riducibile in una biografia: il rischio è di tirarne fuori una macchietta; invece era un uomo di sconfinata qualità. Le opere che ha lasciato sono un nulla a confronto di quello che ha seminato e sperperato regalando ad altri. La speranza è che, dopo di questo ci possano essere altri libri su di lui. Siamo soltanto agli inizi».
Quale era la dote migliore di Longanesi?
«Senza dubbio, il gusto. Raffinatissimo. Non ha mai detto né approvato una volgarità. E il feeling. Le sue intuizioni erano folgoranti, capiva anche quello che non sapeva. Aveva l’intelligenza dei valori, non gli è mai sfuggito un talento, si direbbe che ne sentisse l’odore a distanza. Non era avaro: le idee che gli venivano, ed era un getto continuo, le metteva a disposizione di chi le apprezzava; suggeriva come dovevano essere realizzate e finché non arrivavano al successo non aveva pace».
Qual è l’insegnamento più prezioso che le ha dato?
«La mentalità dell’anticonformismo: non schierarsi col più forte, non andare in soccorso del vincitore, come usa oggi e, forse, usava ieri e l’altro ieri. Leo fu antifascista quando il fascismo era in auge e senza oppositori; crollato il regime, non pronuncio più una parola oltraggiosa e non si appiccicò alcuna medaglia al petto. Fu critico con la democrazia come lo era stato prima: aspro e sarcastico. Andava contro tutti e non gli veniva in tasca nulla. Ha dato molto e ha ricevuto poco: è morto con cinquanta milioni di debiti».
C’è un episodio che ricorda volentieri, che le è rimasto più impresso?
«Tanti. Ci vorrebbe un volume per raccontarli. Questo m’è venuto in mente ieri. Leo era direttore di Omnibus, più della metà del lavoro la faceva lui. In redazione eravamo Pannunzio e io, e ci capitò per mano un libraccio, intitolato Il Piave, di un autore sconosciuto. Cominciammo a leggerlo, era una porcheria in piena regola, retorico e ridondante, traboccava fesserie. Ci prese una riderella irrefrenabile e sfottemmo quel prosatore da quattro soldi che ci sembrava il peggior imitatore di Sem Benelli. Entrò Longanesi: “Qual è la ragione del divertimento?” ci domandò. E gli mostrammo il libraccio. Lesse mezza pagina e ci copri di invettive: “Siete due cretini, non capite un accidenti, qui sotto c’è un talento”. Incaricò me di scovargli quell’autore, era Vitaliano Brancati. Lo rintracciai: lavorava al Tevere, il giornale più ossequioso dell’epoca, una sinfonia del fascismo. Il povero Brancati ci ricavava da vivere, era giovane, avrà avuto vent’anni. Gli riferii che Longanesi aveva piacere di incontrarlo, e si eccitò: normale, perché Leo era già un mito. L’incontro avvenne a Milano. Brancati forse si aspettava un elogio, invece l’altro gliene disse di tutti i colori: “Smettila di scrivere queste stupidaggini, tu devi raccontare storie di corna e dongiovannismo della Sicilia, datti da fare”. Praticamente gli aveva dettato anche il titolo. Vitaliano Brancati è nato così. E Buzzati? Leo lesse un suo racconto sbagliato, non dico brutto, ma sbagliato, eppure indovinò il genio: gli suggerì Il deserto dei tartari. Longanesi era un rabdomante».
Come faceva?
«Che ne so, in mezzo a cento pescava quello giusto».
Lei come fu pescato?
«Ero giovane, ma avevo già scritto: fui letto e pescato».
E Pannunzio? «Lo prese al bar».
Come al bar?
«Pannunzio aveva vent’anni, era nessuno. Leo lo conobbe al banco del caffè: due chiacchiere, un’occhiata, e via, se lo portò in redazione. La sua forza era l’intuito, un’intelligenza femminile. Da lui non c’era da aspettarsi un ragionamento fondato sulla logica, non ne era capace. Ma se si trattava di andare a naso, era infallibile».
Da chi era stimato e da chi odiato?
«Probabilmente lo odiavano soltanto i fessi».
Quanto ha inciso nel giornalismo?
«Ha inventato quasi tutto. Nel nostro mestiere non c’è nulla che Longanesi non avesse già sperimentato, dalla grafica al taglio degli articoli. Omnibus, che è degli anni Trenta, è un esempio: basti sfogliare le raccolte. Si può dire che lo facesse da solo, lavorava incessantemente. Oggi si vive di rendita su quello che ha insegnato dilapidando la propria intelligenza».
Se non sbaglio non ha lavorato assiduamente per i quotidiani: perché?
«Scrisse articoli per la Gazzetta del Popolo. Ma preferiva stare in proprio, era un artista artigiano. E gli piaceva spingere gli altri, non gli importava di apparire».
Le sue battute sono memorabili: quale le è rimasta più impressa?
«Ce n’è raccolte intere, l’imbarazzo è nella scelta. Ne produceva ogni giorno, sempre improvvisando: e non ha mai detto due volte la stessa, aveva orrore delle ripetizioni».
È stato un grande maestro, ma lui da chi aveva imparato?
«Da sé. Crebbe in un piccolo paese, i suoi orizzonti culturali erano limitati. Era un genio innato, non solamente per il giornalismo ma anche per l’arte: fu il primo a comprendere Morandi».
Cos’è cambiato nel nostro ramo dai tempi di Longanesi?
«Non vedo talenti nuovi. Forse non ce ne sono più, o restano nell’ombra perché non c’è lui a scoprirli».
I settimanali, popolari e non, sono migliorati o peggiorati da allora?
«Peggiorati. Sono mediocri imitazioni di quelli che lui faceva benissimo; non si fa che rimasticarli male e senza aggiungervi una novità, senza guizzo».
Immagina cosa avrebbe fatto se non fosse morto così presto?
«C’è da ringraziare Iddio, non avrebbe risparmiato nulla e nessuno, ma gli sarebbe toccato di vedere troppe brutture indigeste. Certo, cose ne avrebbe fatte, anche Il Giornale, e sarebbe stato meglio. Era un grande direttore d’orchestra, non come me che sono un solista: mi manca il colpo d’occhio per avere sotto controllo, in un attimo, la situazione completa. Anche coi giovani: ne avrebbe coltivati parecchi; io pochini, non ho il suo fiuto sugli uomini».
Di Pertini e di Craxi cosa direbbe?
«Ah, come mi mancano i suoi giudizi. Chissà che sarebbe uscito da quella bocca».
Con Pertini ci ha provato anche lei.
«Una piccola prova».
Lei assomiglia a Longanesi?
«In certe cose sì».
Quali?
«Nell’andare contro corrente e nel ripudio della retorica».
Nella categoria oggi c’è un Longanesi?
«No. Non scherziamo».
I migliori giornalisti sono gli anziani: lei, Scalfari, Biagi e pochi altri che non cito per brevità. Nessun giovane. Come mai? Solo i cretini adesso si danno al giornalismo o c’è qualche altra ragione?
«L’appiattimento. Questo è il tempo delle masse, che travolgono e azzerano anche le migliori individualità. Nei giornali arrivano quintali di agenzie e si finisce per manipolare quelle, anziché scrivere articoli. Si tende al grigio e non ci sono opportunità per chi ha il piacere dell’acuto, è soffocato dal coro».
I direttori non hanno responsabilità?
«Forse, ma anch’essi subiscono probabilmente l’appiattimento, si abituano ad avere un giornale monocorde e non vanno in cerca della nota nuova: si rassegnano. Anche perché, fra i diritti sindacali e diritti vari, al direttore restano margini angusti di manovra».
Se lei avesse vent’anni, che mestiere cercherebbe di fare, ancora i giornalista?
«Non lo so. Questo mestiere mi è piaciuto e mi piace, sono felice di averlo scelto, anzi di essere stato scelto dal giornalismo. Ma oggi è meno importante, se cominciassi adesso mi sentirei meno scoraggiato. Potrei arrivarci da altre strade, magari dalla storia, che amo e credo di conoscere e per la quale qualcosa ho fatto. La vita di redazione si è imbarbarita, meglio essere un collaboratore che un redattore: si porta l’articolo al giornale e del resto ci si disinteressa».
Nella situazione attuale rifonderebbe Il Giornale o la sua nascita è legata a un’epoca?
«Mi sono stufato di trovare tanta gente che ci dà ragione. Ma per cinque o sei anni qui s’è lavorato come un ghetto. Se il clima in Italia è cambiato, lo si deve anche al Giornale che è stato a lungo una voce diversa: quasi tutto quello che dicevamo si è rivelato esatto, purtroppo. Abbiamo avuto un pubblico che ha creduto in noi e in noi continua a credere. Ce lo teniamo. Non posso dimenticare quegli anni di “confino”. Ebbi un incidente e qualcuno se ne accorse. Non m’importa il fatto in sé, quello è una stupidaggine: ma né Il Corriere né La Stampa misero il mio nome nei titoli, e questo la dice lunga sulla mentalità che dominava, avevano paura a citare uno del ghetto; Piero Ottone e Arrigo Levi si vergognino. Scrivi, scrivi pure: si vergognino».
È vero che i quotidiani, con la Tv e l’informatica che spopolano, sono destinati a scomparire, quantomeno a perdere d’incisività?
«Non credo. Ma devono cambiare. Sulla rapidità nel dare le notizie sono sempre battuti dalla miriade di radio e televisioni, e diminuiscono i lettori che li comprano solamente per sapere quello che è successo. Ma aumenta la richiesta di commenti e di opinioni, e su questo terreno l’importanza dei quotidiani è addirittura in crescita. Complessivamente il numero delle copie resterà quello attuale: il guaio è che gli italiani costituzionalmente leggono pochi giornali, preferiscono i settimanali perché sono più svelti e disinvolti».
C’è un articolo che non ha mai osato scrivere?
«No, li ho scritti tutti, e sono anche troppi».
Le è venuta voglia di smettere?
«Mai. La salute non mi manca. Finché c’è inchiostro c’è speranza».
Credo che lei dal giornalismo abbia avuto molto, moltissimo. Cosa si aspetta ancora?
«Niente. Vorrei morire su questa sedia, davanti al mio tavolo. Vivo per il giornalismo fine a se stesso, non mi interessa altro: né politica, né titoli, né patacche. Ho sempre rifiutato ciò che col lavoro non c’entrava».
Se avesse un figlio che vuol fare il giornalista che consiglio gli darebbe?
«Grazie a Dio non ho figli. Oggi, averne, sono soltanto problemi. Ma se ne avessi le possibilità sarebbero due: o avrebbe una vocazione spiccata, e in tal caso farebbe di testa sua e finirebbe in un giornale, sottoponendosi alla trafila che tocca a tutti; al massimo potrei aiutarlo a entrare, perché il primo passo è difficile anche per chi ha buone gambe. Oppure avrebbe una vocazione incerta, e allora lo sconsiglierei».
Come si fa ad aver successo?
«Cominciando a non cercarlo».
E quando si ha, come lo si conserva?
«Infischiandosene d’averlo».