il Fatto Quotidiano, 13 ottobre 2019
Biografia di Luca Barbarossa raccontata da lui medesimo
Avviso per ristoratori o neo amici ancora inconsapevoli: Luca Barbarossa a tavola non fa prigionieri; se qualcosa non gli piace, non lo convince o è platealmente sbagliata, la sua espressione conciliante e amabile, comprensiva e rassicurante, si tramuta in un simil Carlo Cracco, tanto da apparire più affine al Barbarossa temibile guerriero, che al cantante di Portami a ballare.
Per tutto il resto è quel che appare.
Solidale, impegnato, la politica si teorizza e si vive, è capace di piangere davanti a un cartone animato (“con mia figlia che mi passa i fazzoletti”) e di indignarsi per la comune attitudine di “credere che dopo di noi ci sia il diluvio”.
Per lui la socialità, la condivisione, sono la base della convivenza, e da sempre (“nasce dall’educazione dei miei genitori”), e tutto ciò nel 2010 si è tramutato nel suo programma, Radio2 Social Club, che negli ultimi anni conduce insieme ad Andrea Perroni, e che da settembre è pure su Rai2. “In questi dieci anni ho conosciuto tante persone, tante storie, non solo nel mondo della musica, tanto da costruire delle amicizie con Paolo Genovese, Anna Foglietta, Marco Giallini, e rafforzarne altre come con Fiorella Mannoia e Francesco De Gregori: loro due sono stati ospiti una dozzina di volte e così ho scoperto un altro lato degli artisti”.
Quale?
Forse la parte più illuminata della persona; Fiorella è divertentissima, meglio di una comica: l’altro giorno ha cantato Let it Be in italiano, anzi in romano, e tradotta, è diventata ‘lascia sta’, lascia sta’’.
Conta il padrone di casa.
Si fidano perché siamo dello stesso mondo: se vado ospite da Baglioni a Lampedusa sono tranquillo perché so già che trovo il top; se mi siedo a tavola da Heinz Beck, non mi preoccupo della cottura della pasta. (Giulio Somazzi, uno degli autori della trasmissione, ride: “Tu ne saresti capace”. Barbarossa è così pignolo? “Io, lui e Perroni organizziamo una cena a tre e per conoscerci. Ordiniamo. Durante la serata Luca ha mandato indietro due piatti su due; e ho pensato: ‘Che sfiga’. Poi ho iniziato a lavorarci, e dopo vari pranzi ho capito che è la normalità”. Si ribella Barbarossa: “Mi avevano portato l’amatriciana con la pasta all’uovo!”)
Torniamo alla Mannoia.
Le voglio bene, oltre alla simpatia è una donna colta e impegnata; con lei mi sono divertito nella trasmissione Uno, due, tre Fiorella…, quando ho composto gli stornelli romani che ha poi cantato insieme alla Ferilli: lì ho capito la grandezza di Sabrina.
Perché?
Li ha interpretati in maniera sublime, e pensare che la conosco fin da quando era una ragazzina e me lo ha rivelato lei durante Sanremo (Somazzi: “Un’altra che da noi dà il massimo è la Turci”).
Voi amici da una vita.
La presi in tournée quando ancora non aveva partecipato al suo primo Sanremo: andai a sentirla in un locale romano, segnalata dalla mia fidanzata. Bravissima. Le dissi: ‘Siccome all’inizio della carriera la mia opportunità è arrivata grazie a Riccardo Cocciante, ho giurato a me stesso che mi sarei comportato allo stesso modo: verrai in tour con me a prescindere dal risultato del Festival’.
Passaggio del testimone.
Sì, ed è stata eliminata la prima sera; siamo rimasti in tournée per tre anni.
Com’è arrivato a Cocciante?
Stessa agenzia, e avevo appena partecipato a Sanremo giovani con Roma spogliata, lui primo in classifica con Cervo a primavera: entravo a metà del suo concerto, cantavo tre canzoni e lui proseguiva.
Tosto.
In quella tournée interminabile ho imparato le basi mestiere, mentre prima, al massimo, avevo suonato per strada in piazza Navona.
Quali sono le basi?
Come si gestisce la regia, le luci, l’impatto con il pubblico; come lui, in teatro, non c’è quasi nessuno al mondo, porta i presenti all’esaltazione.
Cocciante alla fine si definisce stremato.
Nella vita non pensa ad altro: viaggiavamo tutti sullo stesso pullman, dai musicisti al fonico fino al’impresario; Riccardo si piazzava in fondo e aveva allestito un pianoforte verticale, non elettrico, quello acustico che uno piazza in casa: durante i trasferimenti suonava e componeva, parlava poco.
Gli esordi sul palco.
Mi sentivo sempre abbastanza inadeguato, esibirmi significava forzare la mia natura.
Questa sensazione è rimasta?
Amo leggere, studiare e comporre; credo di aver cantato proprio perché scrivo, ho dato voce ai miei pensieri; non sono un istrione, ma questo è un mestiere che si impara sul campo e oggi sul palco mi sento a casa, anzi a volte devo stare attento, ho la sensazione del pigiama e del divano.
“In pigiama” è un’immagine amara…
Durante i live non ho più alcun pudore, mi posso fermare durante un brano e prendermi per il culo.
Sul palco parla molto?
Sempre di più.
Ha dichiarato: “Sanremo è una settimana di follia”.
Per sette giorni credi che è lì il centro del mondo, che il problema più grande dell’Italia sono le canzoni. Sembra la notte degli Oscar.
L’esordio su quel palco?
Ho subito avuto la prova della follia: arrivo il pomeriggio alle prove, e avevo 19 anni, la sicurezza mi impedisce di entrare perché mi manca il pass; la sera canto il brano in diretta, finisco, aspetto un po’ dietro le quinte, esco dal teatro e la stessa sicurezza è stata costretta a scortarmi per la presenza di migliaia di persone.
Chi ha chiamato dopo l’esibizione?
Nessuno, altri tempi; settimane dopo mi telefona papà per dirmi che ero primo nella hit parade, e non lo sapevo, non avevo calcolato questa possibilità.
Suo padre come visse il successo?
Non lo so, lo vedo una volta ogni tanto, e già allora vivevo da solo, e poi i miei si sono separati quando avevo due anni; comunque la passione per la musica me l’ha trasmessa lui e grazie al jazz.
In quel periodo era segretario di una sezione del Pci.
Sono nato a Campo Marzio (centro di Roma), ma a un certo punto i miei genitori (la madre e il secondo marito) decidono per motivi economici di trasferirsi in campagna.
Disperato.
Avevo 14 anni, vivevamo isolati, non passava neanche l’autobus: o ti ammazzi o scrivi canzoni. Ho scritto.
Però…
Frequentavo la sezione del Pci di Monterotondo, poi il partito, con Veltroni capo dei giovani comunisti, mi chiede di aprire la sede del mio paese.
Anni Settanta, manifestazioni, lotte, pericoli.
Sempre presente: il giorno della morte di Giorgiana Masi ero a 200 metri…
Manganellate?
Eccome: manifestavo, poi la sera suonavo in piazza Navona, al Pantheon o a Santa Maria in Trastevere.
Quanto racimolava?
Se andava bene, il sabato sera anche a 100 mila lire.
Tantissime.
Noi (lui e Mario Amici, amico e compagno dal liceo) avevamo costruito un vero spettacolo.
Cosa cantavate?
Quasi solo folk e country statunitense.
Niente romano?
Eravamo americani-americani, molti ci scambiavano per stranieri.
E la cultura comunista, come si conciliava?
Interpretavamo Woody Guthrie o Crosby, Stills, Nash & Young, cantanti di sinistra.
Insomma, il paese…
Dopo l’incarico tornavo a Roma con la corriera, e andavo dalle società che affittavano i film: lì prendevo quelle enormi pizze di latta con dentro la pellicola, poi rientravo in sezione e montavo il proiettore per il cineforum.
Un classico del periodo.
Con pazienza e meticolosità bussavo casa per casa, l’obiettivo era tesserare e coinvolgere la popolazione.
Come reagivano le persone?
Quelli de destra me volevano ammazzà; poi la domenica vendevo L’Unità ai semafori.
Quali film proiettava?
Popolari, magari con Totò con Aldo Fabrizi, e improvvisamente quella sezione si trasformava in una sorta di Nuovo Cinema Paradiso.
Mamma approvava?
A casa purtroppo siamo così; i miei lavoravano a Repubblica, Eugenio Scalfari quasi tutti i venerdì sera era da noi.
Scalfari l’affascinava?
Un uomo molto divertente, le serate con lui e Paolo Guzzanti diventavano fantastiche: io prendevo la chitarra e vestivo il ruolo del menestrello, mamma cantava le canzoni romane e molto bene, Scalfari le classiche come Il cielo in una stanza.
Karaoke.
Un po’ sì; con noi anche gli altri di Repubblica e una serie di politici come Miriam Mafai e Giancarlo Pajetta, poi Giovanni Spadolini e Virginio Rognoni; quel clima era già un po’ un Social club.
Di loro chi l’affascinava?
Pajetta e la Mafai arrivavano con una Fiat 500, e ovviamente guidava lui. Stupendi.
“Compagni che sbagliano” li ha conosciuti?
Nel 1977 era quasi impossibile non capitarci, e mi sentivo abbandonato dal compromesso storico, così andavo a cercare certezze altrove, tanto da frequentare i comitati di base come quello di Lotta continua.
Com’era suo padre?
L’opposto: scapolone vero, uomo allegro e avvolto da un clima popolare; mi portava nelle cene del lunedì, quando a Roma sopravviveva ‘La società’, una sorta di banca clandestina.
Cos’era?
Un gruppo di persone metteva periodicamente dei soldi in un fondo, e quando uno aveva un problema, chiedeva un prestito; così si otteneva quello che gli istituti ufficiali non avrebbero mai concesso perché erano tutti mezzi ladri, protestati o rovinati.
E tutto questo…
Accadeva nel retrobottega di un’osteria, e dopo aver versato la quota si restava per mangiare e lì nascevano grandi amicizie tra le persone più differenti: l’artigiano, il muratore, il commesso del ferramenta, lo stuccatore del Quirinale; poi arrivava Bombolo quando ancora non era il personaggio del cinema.
“Tze Tze”.
Era un venditore ambulante: si affacciava dalle tendine e magari cantava ‘O sole mio in un russo maccheronico, e solo perché gli piaceva stupire; poi si sedeva a un tavolo, e iniziava a raccontare delle storie, magari la sua prima notte di nozze, come se qualcuno glielo avesse chiesto, ma nessuno aveva fiatato.
E quando è diventato famoso?
Una mortificazione rispetto alla realtà: nel cinema è stato sfruttato a forza di schiaffi e mi si stringeva il cuore.
Suo padre di cosa viveva?
Sempre stato nel mondo dell’industria farmaceutica, e ancora oggi, a 85 anni, è un consulente; a quel tempo mi portava a tutti i concerti di jazz e da piccolo ho visto dal vivo i più grandi; oggi va di moda, ma allora era un ascolto carbonaro, e quando Paolo Conte canta ‘certi capivano il jazz, l’argenteria spariva’, crea un’immagine perfetta.
Il suono e il mistero.
Frequentavamo una cantina all’inizio di via Giulia, il Music Inn, un ambiente per 50 persone e senza uscite di sicurezza: lì ho ascoltato giganti come Kenny Clarke.
50 sono proprio poche.
Dividevano lo spettacolo in due turni: se volevi assistere al concerto intero, eri costretto a pagare due biglietti; con papà restavo solo il primo tempo, poi andavo a dormire in macchina e lui continuava.
I più grandi artisti per sole 50 persone?
C’era Pepito Pignatelli, nobile romano, che evidentemente metteva la differenza, pagava per noi.
E quindi la frase di Conte?
Mi ricorda quell’atmosfera fumosa, con la gente che indossava delle giacche consumate: se fosse sparita l’argenteria o l’orologio, nessuno si sarebbe stupito.
Lei fumava?
Solo da ragazzino, ma era un atteggiamento, poi sono sempre stato un atleta e ho lasciato perdere.
Viaggio della vita?
Londra: frequentavo il liceo, ma appena potevo scappavo, andavo lì e lavoravo come cameriere in un ristorante prima, in un albergo poi; una volta anche da Harrods, addetto all’impacchettamento.
Oltre Londra?
La tournée più bella della mia vita è stata nel 1978 in Spagna e Portogallo con Mario: siamo partiti con una Fiat 126, tenda e sacco a pelo; era appena finito il franchismo, gli spagnoli desideravano divertirsi, e per noi fu una manna: incassavamo tantissimo.
Fine anni Ottanta: Dalla.
È stato molto importante per me: a un certo punto ho iniziato a registrare nel suo studio di Bologna e nei primi Novanta comprai una casa lì.
Come si è trovato?
Città difficile, hanno un loro mondo abbastanza blindato: dopo il lavoro ognuno se ne andava a casa e spesso mi trovavo da solo.
Nonostante Dalla.
No, lui ti presentava mille persone, non solo legate al mondo della musica, anche artisti, attori di teatro, ti presentava nuovi talenti.
Chi ricorda?
Una sera si avvicina: ‘Ascoltalo, è bravissimo’, e mi ritrovo davanti un ragazzo al piano: era Samuele Bersani che canta Il mostro, gran pezzo. Ah, spesso c’era Morandi.
Che l’ha coinvolto nella nazionale cantanti. E lei è il bomber.
Non gioco più, mi sono rotto tutto: la settimana scorsa, mentre vedevo la Roma, ho capito subito che Dzeko si era fratturato lo zigomo e solo perché è accaduto a me.
Solidarietà.
La differenza è che lui è rimasto in campo, io ho pensato di morire e ho urlato: ‘Portatemi in ospedale’. Mi spavento subito.
E l’addio di Totti?
Commosso, però anche qui devo ammettere un aspetto: capita spesso.
Cosa?
Basta uno spot televisivo a sollecitare le lacrime: quando porto mia figlia di dieci anni al cinema, e per un cartone, lei si siede in poltrona e prepara dei fazzoletti: nei momenti topici me li allunga e mi umilia.
Una sua debolezza?
Quanto tempo ho a disposizione? Vuole scrivere un inserto su di me?
L’oroscopo lo legge?
Mai.
Scaramantico?
No, però mia figlia mi sfida a passarle il sale.
Religioso.
Ateo e rispettoso.
Gratta e vinci lo compra?
Al massimo ho compilato la schedina del calcio.
Oltre al cibo sbagliato, cosa la indispone?
Spesso le persone vivono secondo dei personalismi assurdi, come se dopo di loro ci fosse il diluvio; io forse esagero, ma se entro in un bagno pubblico, e lo trovo lercio, temo che il tipo dopo di me possa pensare che sono stato io.
E…
Sono capace di pulirlo.
Chi è lei?
Mi sento un po’ come Nanni Moretti in Caro Diario, quando urla: ‘Voi gridavate cose orrende e violentissime, e voi siete imbruttiti. Io gridavo cose giuste, e ora sono uno splendido quarantenne’.